ambiente, politica italiana

"Il dovere di distinguere", di Carlo Galli

Per fortuna non c´è stata, in Val di Susa, una replica dei fatti di Genova di dieci anni fa. Come allora, la violenza premeditata si è infiltrata nelle proteste di massa; a differenza di allora la risposta delle forze dell´ordine è stata ferma, ma professionale. E questo è un fatto positivo. Ma c´è stata anche un´altra differenza: c´è stata – da parte di Beppe Grillo – l´offerta di una sponda politica alla protesta, che non ha distinto a sufficienza, e con la dovuta chiarezza, fra critica (anche radicale) e violenza. Parlare di “guerra civile” in corso, affermare “siete tutti eroi”, inneggiare alla “straordinaria rivoluzione” che si oppone alle “prove tecniche di dittatura”, significa che il linguaggio politico sta deragliando.
Che il populismo demagogico grillino sta perdendo il controllo della situazione, e gioca ormai al tanto peggio tanto meglio. Che sta investendo politicamente non solo sull´emozione, come di solito fa, ma sull´esasperazione, sulla confusione.
E invece è cruciale, ora, sapere esercitare la distinzione concettuale – e pratica – fra protesta e violenza: tanto lecita la prima quanto indifendibile la seconda. E fra democrazia e dittatura; all´interno della prima, infatti, ci troviamo, nonostante tutto; e soprattutto in essa ci riconosciamo; mentre la seconda non è all´ordine del giorno, meno che mai nelle forme di violenta e illiberale repressione che si denunciano, e che giustificherebbero la “resistenza” violenta.
Come va attuata, infine, la distinzione fra sommossa e guerra civile: episodica illegalità l´una, che va ricondotta all´interno delle regole e dell´impero della legge, mentre l´altra è la lacerazione del tessuto politico, la fine di una forma politica da cui – con un tragico tributo di sangue e sofferenze – ne esce un´altra.
Un politico anti-sistema – quale Grillo è – può praticare disobbedienze radicali, può attivare movimenti di dura critica alle istituzioni (essendo a sua volta criticato, naturalmente), può operare perché da un focolaio di crisi scaturisca un´energia politica capace di propagarsi all´intero Paese; ma non può confondere la propria lotta – né quella altrui, che egli assume come occasione propizia per sé e per il proprio movimento – con la violenza.
Il rapporto amico/nemico, che viene evocato, non è uno scherzo; è un processo che, semplicemente, non va attivato perché fa saltare i fondamenti della vita civile. Perché mette in gioco la morte, la possibilità dello scontro all´ultimo sangue. E questo, va detto con estrema fermezza, non lo può legittimamente volere nessuno.
Davanti a questa prospettiva tutti devono arretrare: col passo indietro della responsabilità, della chiarezza e della distinzione. Cioè della ragione, e della politica che passa attraverso le istituzioni, e attraverso il conflitto (auto)-limitato.
Si può pensare quello che si vuole della Tav: la si può vedere come un´occasione di sviluppo (quale probabilmente può ancora diventare), oppure come l´intrusione di un ciclopico Leviatano affaristico-tecnologico – su scala europea – che sconvolge le vite di intere comunità.
La si può vedere come un destino a cui è stupido e antimoderno sottrarsi, oppure come una finta necessità, a cui è giusto tentare di resistere pacificamente – i conflitti sono il sale della democrazia, dopo tutto –. Ma non si può pensare quello che si vuole della democrazia: non si possono considerare le sue regole come qualcosa che può essere calpestato per calcolo politico, per impadronirsi di una protesta, per mettere il cappello su un disagio.
La vicenda Tav può essere stata gestita male; il dialogo politico può essere stato insoddisfacente – tutto ciò è opinabile –; ma nulla legittima la violenza. Che non proviene neppure dai diretti interessati – gli abitanti della Val di Susa –, i quali anzi ne sono oggettivamente danneggiati, ma da professionisti dei tumulti estranei al luogo.
Cioè da soggetti che strumentalizzano una crisi, che non ne vogliono una soluzione ma – per fini che con la Tav non hanno nulla a che vedere – solo l´aggravamento e l´estensione: come Grillo, appunto, e, specularmente, come Gasparri, interessato solo a cercare goffamente di coinvolgere il Pd e Sel (che con modalità diverse si sono chiaramente dissociati dalla violenza) nelle malefatte della “estrema sinistra”.
Che è piuttosto un´estrema irresponsabilità, diffusa in buona parte dello schieramento politico, insieme alla confusione e al caos che qualcuno crede possa essere creativo, e che invece rischia di essere solo distruttivo. Delle buone ragioni, per chi le ha; e della democrazia, per tutti.

La Repubblica 04.07.11

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“Ma da Napoli al Piemonte la Base si ribella contro Beppe e il suo guru”, diJACOPO IACOBONI

Avete presente Fight Club ? A un certo punto il progetto di Edward Norton – creare una rete di combattimenti notturni per sfogare la volontà di potenza di maschi americani – va così oltre le intenzioni che sfugge totalmente dalle mani di chi l’aveva iniziato. Ecco.

Mentre Beppe Grillo ieri portava la sua voce in Val Susa a quelli che si battono contro la Tav, sul blog peerates.org Alessandro, uno dei sostenitori dei suoi meet up, commentava amaro: «Grillo mi ricorda un po’ quella scena di Fight club , dove il protagonista perde il controllo del progetto Mayhem, che continua anche senza di lui e contro il suo volere». E il fatto è questo ormai: dopo l’uno-due elezioni amministrative-referendum, sono sempre di più i sostenitori o semplici cittadini che non accettano più l’equazione movimento-uguale-Grillo, e non tollerano più i metodi dell’antico ispiratore. Non è la prima volta che accade, in questi anni, ma ora il malessere ha un senso particolare perché investe la domanda: che facciamo dopo le vittorie elettorali? Il casus belli risale al 18 giugno, le discusisoni duravano ancora ieri. Grillo convoca una riunione a porte chiuse a Milano – di solito avvengono ogni sei mesi – in cui, col divieto di far riprese e raccontare all’esterno (!), prova a strutturare una forma di coordinamento. Se ne occupano due uomini, i fratelli Davide e Gianroberto Casaleggio, che con la loro azienda gestiscono da anni il sito e la strategia del comico di Genova.

L’incontro, dalle 11 alle due e mezzo di pomeriggio, nomina (non elegge) quattro figure, Matteo Olivieri (Reggio Emilia), documenterà i progetti realizzati nelle città; David Borrelli (Treviso), si occuperà delle liste; Vito Crimi, di Brescia, analizzerà e coordinerà i programmi sui vari territori; infine Vittorio Bertola, di Torino, che ha il compito di ritoccare Movable Type, il sistema su cui gira il sito Grillo, per creare una piattaforma informatica per condividere tutto il lavoro prodotto dai consiglieri grillini in Italia. Normale, Grillo si dà una struttura, sia pure leggerissima. Ma lui o qualcun altro per lui? Luca B., dei meet up bolognesi, domanda: «Chi decide questi coordinatori?». Roberto Fico, del meet up di Napoli, attacca: «Con che criterio organizzate gli incontri, potremmo saperlo?».

Davide Bono, consigliere piemontese, ieri in Val Susa ha ribadito ogni solidarietà con Grillo. Però è certo che i modi con cui è avvenuta la strutturazione del movimento non gli sono piaciuti, «altro che spontanee, queste sono candidature spintanee. E tre di loro hanno doppi incarichi». A fine meeting aveva raccontato: «Strappo il microfono alle 14,30 e chiedo lumi, chi ha deciso chi, e se sono ruoli tecnici o politici? Mi si risponde che se qualcuno del territorio me lo chiede devo mandarlo aff…». Siamo a questo: Grillo sfodera il vaffa contro i suoi stessi eletti.

Bertola nel frattempo si autosospende dal coordinamento piemontese, in polemica con Bono. Mauro Conte accusa, «vale il singolo cittadino o sono due tre persone senza nome e senza volto, che scavalcano tutto? Grillo mi manda aff…? Io mando aff… lui». La candidata romana Serenetta Monti dice che Beppe «prende ordini» da Gianroberto Casaleggio. Chi sia quest’uomo dai capelli Galbusera – che ieri se ne stava sereno nel bosco che possiede vicino a Ivrea, nel Canavese – è noto, ma varrà la pena ricordarlo.

Beppe Grillo stesso, nella prefazione di «Web ergo sum», racconta: «Lo incontrai per la prima volta a Livorno, una sera di aprile del 2004. Venne in camerino e cominciò a parlarmi di rete. Di come potesse cambiare il mondo. Pensai che fosse un genio del male o una sorta di San Francesco. Ebbi un attimo di esitazione. Casaleggio ne approfittò. Mi parlò allora di Calimero, il pulcino nero, Gurdjieff». E infatti Casaleggio un po’ ricorda il mistico armeno, con le sue teorie su una rete impalpabile (Gaia) che arriverà a controllare la vita e la politica reale. Sarebbe discorso lungo, il fatto è che Grillo demanda a Casaleggio ormai tutto. E sul web fanno le pulci al network del guru, i suoi esordi nell’Olivetti di Roberto Colaninno, il passaggio in Webegg, un’azienda allora controllata da Telecom (ai tempi Tronchetti Provera), la sua amicizia con un altro socio della Casaleggio,Enrico Sassoon, poi dal 1998 ad d e l l ’ A m e r i c a n Chamber of Commerce in Italy, che raggruppa tra l’altro gruppi come quello dell’Aspen Institute.

Nulla di male, ovviamente; ma nulla che esalti la base. La mobilitazione, web o reale non fa distinzione, cresce, e non accetta più totem, specie dopo le vittorie elettorali. Grillo giura: «Mi chiamo fuori da questa deriva partitica piemontese». Ma il movimento cinque stelle sa di non essere il Pdl.

La Stampa 04.07.11