attualità, politica italiana

"Come buttare 14 miliardi senza fare quasi nulla", di Sergio Rizzo

Sono passati più di dieci anni da quando Silvio Berlusconi disegnò a Porta a Porta il grande piano infrastrutturale che avrebbe dovuto modernizzare l’Italia. Per fare un paragone storico, nel decennio compreso fra il 1861 e il 1872 vennero costruiti in Italia circa 5 mila chilometri di ferrovie. Ma senza andare tanto a ritroso, la realizzazione dei 754 chilometri dell’Autostrada del sole, fra il 1956 e il 1964, richiese appena otto anni di lavori.
A un ritmo di 94 chilometri l’anno il Paese cambiò faccia. Non siamo nell’Ottocento e nemmeno negli anni del boom, d’accordo. Resta il fatto che dal 2001 a oggi è cambiato poco o nulla. Tranne qualche eccezione, come il Passante di Mestre (fatto in regime di commissariamento e tuttora commissariato) quelle infrastrutture del sogno berlusconiano sono rimaste segni di pennarello nero su un foglio bianco. A dispetto delle promesse e delle favole che ci vengono frequentemente raccontate. Il 10 dicembre 2010 il presidente del Consiglio ha detto: «Nei prossimi due anni di legislatura apriremo cantieri e ne completeremo per 55 miliardi di euro» . Due mesi dopo ha ammesso che in Italia «c’è il 50%in meno di infrastrutture rispetto a Francia e Germania» , aggiungendo che è colpa tanto del nostro enorme debito pubblico quanto degli «ecologisti di sinistra» . Difficile dire se i protagonisti degli scontri con la polizia in Val di Susa siano qualificabili come «ecologisti di sinistra» . Di solito quando si sconfina nel codice penale la passione politica c’entra poco. Che però spesso un pregiudizio radicale, travestito da malinteso e ottuso ambientalismo, abbia complicato la vita a ferrovie e autostrade, è innegabile. Ma la paralisi delle infrastrutture e il conseguente rischio di perdere anche cospicui finanziamenti europei (come nel caso, appunto della Tav in Val di Susa) non possono essere naturalmente addebitati solo alle pressioni ecologiste. Indipendentemente dalle ragioni, in molti casi legittime, di chi si oppone per motivi ambientali, l’Italia si è trasformata nel «Paese del non fare» . Non fare, naturalmente, le infrastrutture: perché in questi ultimi dieci anni abbiamo comunque consumato territorio a una velocità, accusa Salvatore Settis in Paesaggio Costituzione Cemento, di 161 ettari al giorno, pari a 251 campi di calcio. Si continua ad allagare le nostre pianure con orrendi capannoni industriali e centri commerciali e a distruggere il paesaggio con colate di costruzioni abusive o legali, mentre è diventato quasi impossibile fare un’autostrada o una ferrovia. Per le opere pubbliche non ci sono i soldi, è il ritornello. Ma un bel contributo lo dà anche il nostro curioso federalismo al contrario, con le sue competenze polverizzate fra miriadi di enti locali e le Regioni che a colpi di ricorsi al Tar o alla Corte costituzionale sono in grado di bloccare tutto. Senza citare il colpevole principale: l’assenza della politica. Perché un conto sono le promesse da campagna elettorale e le dichiarazioni per finire sui titoli dei giornali, un altro impegnarsi a far marciare i cantieri. Emblematico è il caso del controverso Ponte sullo Stretto di Messina: ci sono i costruttori pronti, i denari per cominciare e il progetto definitivo. Ma non c’è la volontà politica ed è tutto fermo. Il risultato di questa situazione è sotto gli occhi di tutti. Nel 1970 l’Italia era il Paese con la maggiore dotazione autostradale d’Europa, seconda soltanto alla Germania. Oggi è in fondo alla lista. I nostri 6.588 chilometri sono circa metà degli 11.400 della Spagna, Paese che nel 1970 ne aveva appena 387. L’Italia è oggi al top della congestione europea, con 6 mila autoveicoli per ogni chilometro di autostrada, contro i 2.300 della Spagna e i 3.300 della Francia. Per tacere delle ferrovie (rispetto al 1970 la rete è aumentata di appena il 4%mentre i passeggeri sono aumentati del 50%) e della condizione angosciante nella quale un Paese con 8 mila chilometri di coste abbandona infrastrutture strategiche come i propri porti. E si continua così, complice anche lo stato malandato delle nostre finanze pubbliche. L’Ance denuncia che il governo non ha previsto alcun contributo per gli investimenti dell’Anas e ha tagliato di 922 milioni i fondi destinati alle ferrovie. Uno studio condotto da Agici-finanza d’impresa (di cui è partner l’Associazione dei costruttori) ha calcolato che soltanto negli ultimi due anni il costo per il Paese della «ritardata realizzazione delle infrastrutture programmate» avrebbe toccato 14,7 miliardi di euro. Un terzo della manovra che ci apprestiamo a digerire.

Il Corriere della Sera 05.07.11