attualità, politica italiana

«Parma in rivolta contro i corrotti ora sembra la Milano del ’ 92», di Dario Di Vico

Denunce e fiaccolate anticorruzione

È ovvio che il precedente che viene alla mente non può che essere Milano e la stagione di Mani Pulite iniziata nel ’ 92. A Parma, infatti, mutatis mutandis sta succedendo qualcosa del genere: la politica è in mora e si è creato un circuito di consenso diretto tra magistratura e opinione pubblica. Dal 24 giugno scorso, giorno in cui sono stati arrestati per tangenti negli appalti pubblici in un colpo solo ben 11 tra alti dirigenti del Comune, funzionari e imprenditori, è scoppiata una piccola rivolta anticorruzione. Il copione in fondo è semplice: i cittadini sono stanchi di piccole e grandi malversazioni e chiedono ai giudici di fare piazza pulita, di aiutarli a liberarsi di una casta fastidiosa e costosa. La sera stessa in cui in città si era sparsa la notizia del clamoroso blitz la ribellione si è espressa con un vero e proprio assedio al municipio, un centinaio di persone che scandivano a gran voce la richiesta di dimissioni del sindaco, Pietro Vignali, individuato come il responsabile del malcostume amministrativo. Vignali nella circostanza se la cavò uscendo da una porta secondaria ma l’avversione popolare lo sta inseguendo da allora. Nei giorni successivi, infatti, «l’estate dello scontento parmigiano» è continuata con un fenomeno che si può documentare con le parole usate ieri dal procuratore di Parma, Gerardo Laguardia. «Molti cittadini si stanno facendo avanti presentando denunce ai nostri uffici e segnalando molti episodi di corruzione e concussione» . Di conseguenza gli inquirenti parmigiani— è sempre Laguardia che parla— avranno «da lavorare per molto tempo» perché le denunce dal basso richiedono opportuni controlli, verifiche e indagini. Nel frattempo dal procuratore si è venuto a sapere che parecchi tra gli arrestati stanno collaborando con la giustizia e quindi il materiale a disposizione degli inquirenti non manca. Anzi, rischia di tracimare. In una condizione del genere la politica locale appare come sospesa nel vuoto, privata della sua legittimità sostanziale e ridotta a puro simulacro di micro decisioni amministrative. Vignali che fino a poco tempo fa era considerato l’enfant prodige di un centro-destra civico, e per questo destinato a luminosa carriera, non ci sta a innestare la retromarcia. Non ha intenzione di dimettersi perché capisce che una volta perso il pallino non lo ritroverà più ma il cortocircuito che si è creato tra magistratura e opinione pubblica forse va ben più in là dei pur importanti destini politici del primo cittadino. Era dal ’ 75 e dalle manifestazioni che in città ricordano come «le lenzuolate» che non si vedevano centinaia di persone in piazza a protestare per le scelte del Comune ed è evidente come la contestazione, che va al di là del perimetro dell’opposizione, investa almeno simbolicamente l’intera classe dirigente parmigiana. Sui difetti di Parma e la leggerezza di una borghesia cittadina che non ha saputo prendere in mano il suo destino l’aneddotica è ricca. Le barzellette arrivano a raccontare persino le differenze tra un cane parmigiano piuttosto tronfio e incline all’autocompiacimento e un cane piacentino più diffidente ma al tempo stesso più attento a non perdere l’osso che sta addentando. Quello che su un piano più concreto si può dire è che Parma non è mai stata un contado ma non è mai diventata una capitale. I reggiani sono concreti e morigerati, i concittadini di Vignali sono più attenti alle belle parole, ai vestiti eleganti e agli inchini. Un esempio su tutti: pensate che in città ci si sia battuti il petto perché una multinazionale del valore di Parmalat stava passando ai francesi senza che gli imprenditori italiani si fossero mossi per tempo (e spendendo così, tutto sommato, poco)? Tutt’altro mentre a Roma e Milano si parlava, purtroppo a vanvera, di cordate nazionali, a Parma le cose erano guardate con disincanto misto a cinismo. La città del resto non ha mai amato Enrico Bondi, il manager venuto da fuori, restio ai salamelecchi e più incline alla bonifica dei conti aziendali. Persino il film del regista Molaioli («Il gioiellino» ), dedicato a raccontare il crac Parmalat, in città lo si è visto per poche sere. E nei bar lo si è criticato a sangue. Un’altra città avrebbe fatto le barricate per un’azienda che volenti o nolenti porta nel mondo il suo nome, Parma no. Troppo ricca e cinica per nutrire passioni, dicono. E del resto basta partecipare a un dibattito nelle associazioni industriali per capire come lo spirito d’impresa e l’amore per il rischio abbiano traslocato. Le giovani generazioni non hanno voglia di soffrire, si sostiene, e i figli degli imprenditori meno che mai. Eppure da fare ce ne sarebbe tanto. Se non altro, almeno della sua meravigliosa food valley Parma potrebbe essere la degna capitale. I grandi marchi del cibo locale fortunatamente camminano per la loro strada nonostante la Grande Crisi. La Barilla guarda agli Stati Uniti e pensa addirittura di sbarcare in Cina con un progetto innovativo. Il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano e il mitico Prosciutto hanno realizzato nelle esportazioni del 2010 performance da capogiro. Ma potrebbero fare ancora e meglio. Del resto se non siamo capaci di esportare il cibo, la nostra «dolce vita» come recita uno slogan della Confindustria, tanto vale dimettersi dall’economia globale. Così messe da parte le belle ambizioni un pezzo significativo della società parmigiana sembra dedito ai traffici, agli affarismi, ai subappalti. Alla mediocrità di tangenti tutt’altro che milionarie ma diffuse, alla volgarità di pressioni coordinate e continuative sul capo dei vigili urbani per ottenere che i suoi sottoposti chiudessero prima un occhio e poi l’altro. E che si facessero strumento dell’ordinaria corruzione. «Il telefono dei vigili era rovente per le richieste» ha raccontato Laguardia. Ci avviamo ad avere a Parma una piccola Repubblica giudiziaria? Chissà. Di sicuro il blitz degli undici arresti una sua simbologia ce l’ha: i magistrati l’hanno fatto scattare poche ore dopo la conclusione della festa di San Giovanni (23 giugno), giorno che i parmigiani tradizionalmente consacrano al culto dell’abbondanza e non solo.

dal Corriere della Sera