memoria, politica italiana

"67 anni per 67 vittime", di Manuela Ghizzoni *

I decenni che ci separano da quella alba tragica e sanguinosa del 12 luglio 1944 non hanno cancellato dalla memoria collettiva il sacrificio per il riscatto nazionale dei 67 martiri, così come non sono stati sufficienti a rimarginare la dolorosa ferita aperta da quella strage e nemmeno bastano, i 67 anni trascorsi, ad attenuare la legittima richiesta di verità e giustizia.
Purtroppo, come è avvenuto per altre stragi che hanno insanguinato il Paese nell’epilogo del conflitto, noi non conosciamo ancora tutta la verità sulla strage del Poligono di Cibeno: non è noto del tutto il criterio di selezione delle vittime, né sono ancora chiare le cause scatenanti dell’eccidio. Allo stesso modo restano incerte le responsabilità.
Corre l’obbligo di richiamare qui la vicenda dell’Armadio della vergogna, che rappresenta la mancata volontà – nei più alti livelli istituzionali del nostro Paese – di rendere verità e giustizia alle vittime delle stragi e ai loro famigliari per quella che potremmo definire “la ragione di Stato” e al contempo ci ricorda quanto sia fragile la democrazia e quanto sia necessario vigilare su di essa.
L’occultamento, fino al 1994, di 695 fascicoli processuali, contenenti denunce precise di stragi commesse dai nazisti e dai repubblichini di Mussolini, ha consentito l’impunità alla maggior parte dei responsabili e al contempo, ostacolando la ricostruzione di quei crimini, ha promosso una rimozione complessiva dello stragismo nazifascista e quindi di un tornante della nostra storia recente. Ha di fatto impedito all’intero Paese di fare i conti con il proprio passato, di scrivere cioè una storia condivisa, all’interno della quale riconoscersi e progettare il futuro.
Quell’Armadio occultato rappresenta un sfregio non solo alla memoria ma anche alla dignità dello Stato italiano.
Il ritrovamento dei fascicoli, seppur tardivo, ha permesso in alcuni casi di riconsegnare ai famigliari delle vittime e all’intero Paese verità storica e giudiziaria.
È di questi giorni – finalmente – la condanna dei responsabili della strage di Monchio, Susano e Costrignano del 18 marzo del 1944, in occasione della quale i nazisti trucidarono per rappresaglia 136 persone. La più feroce strage perpetrata nella provincia di Modena.
La prolungata assenza di verità e giustizia ha aggiunto sale a quella dolorosa ferita che ha segnato famiglie intere per generazioni, che hanno atteso pazientemente che “la ricerca della verità fosse animata da senso di umana giustizia e volontà di pace per la nostra gente” come ebbe ad augurarsi qualche anno fa la sorella di un martire di Cibeno (Ersilia Carioni).
È il motivo per cui la ricerca della verità non può andare in prescrizione e non può interrompersi con la scomparsa dei responsabili e degli imputati nei processi.
Questo credo sia il messaggio che deve partire anche dalla celebrazione odierna, la prima che si tiene dopo la morte di Michael “Misha” Seifert, il criminale di guerra nazista, morto nell’ospedale civile di Caserta nel novembre scorso, condannato all’ergastolo in via definitiva, nel 2001, per i fatti di Bolzano. In quell’occasione è emerso che Seifert faceva parte del protone di esecuzione al Poligono e in virtù di quell’evidenza, nel 2002, fu presentato un esposto a cui negli anni non è stato dato riscontro. Ora, la morte sopraggiunta del criminale nazista – come già era stato per Haage – non chiude la vicenda poiché ancora troppe domande restano senza risposta, e la verità appare come un convitato di pietra.

Spesso mi è capitato di essere invitata – come oggi – a ricordare vicende del periodo della guerra nei comuni della Prima Zona partigiana che raggruppava i comuni di Carpi, Campogalliano, Novi e Soliera. In queste occasioni sento sempre e sempre di più sulle spalle il peso dell’eredità morale e civile dell’aspra lotta di Liberazione che si è combattuta in queste terre, come nel resto del Paese occupato.
Chi ha avuto in sorte di attraversare gli anni più bui del nostro Novecento, ha dovuto pagare un tributo personale immenso, anche di sangue; e il ricordarlo è un onore ma anche un onere straordinario, poiché ogni parola rischia di apparire inadeguata o retorica.
La guerra e il suo epilogo tragico successivo all’8 settembre 1943 hanno imposto a uomini e donne normali scelte difficili, tragiche, indifferibili, quel tipo di scelta che misura la distanza tra dignità e abiezione umane, tra pulsioni solidaristiche e abdicazione all’immoralità.
Lo spiega bene il nostro Odoardo Focherini con le sue note parole dal carcere: “Se tu avessi visto, come ho visto io in questo carcere, cosa fanno patire agli ebrei, non rimpiangeresti se non di non averne salvati in numero maggiore”. Come lui, molti Giusti e antifascisti, interrogati sulla loro scelta, hanno replicato: “E tu cosa avresti fatto al mio posto?”
In realtà, quella “banalità del bene” esercitata nei confronti dei perseguitati dal fascismo e per la libertà di tutti fu un atto di coraggio e di generosità non comuni, ma che animò tanti.
Se penso all’oggi, alla scarsa capacità di indignazione, e alla diffusa omologazione etica, all’appiattimento sui luoghi comuni e all’egoismo dilagante, avverto che non stiamo rendendo giustizia alla memoria dei Resistenti, che ne stiamo in qualche modo tradendo il ricordo, sebbene siano stati coloro che hanno riscattato moralmente l’Italia macchiata dall’onta del fascismo e da tutto ciò che il regime ha generato.
Ecco perché voglio nominare uno ad uno i 67 di Cibeno, i quali – pur provenendo da 27 diverse province italiane – qui, tutti insieme, hanno trovato la morte per un colpo alla nuca. È doveroso richiamarli uno per uno: rischieremmo di disperderne la memoria ricordando solo il totale aberrante della macabra contabilità stragista.
Non furono numeri, furono uomini interpreti dello loro vite, con il loro carico di passioni, sentimenti, relazioni, che, seppure con il dovere della sintesi, ci sono restituiti dal bel libro di Anna Maria Ori, Carla Bianchi Iacono e Metella Montanari
Andrea Achille (32) Vincenzo Alagna (20) Enrico Arosio (39)
Emilio Baletti (56) Bruno Balzarini (43) Giovanni Barbera (28)
Vincenzo Bellino (29) Edo Bertaccini (20)
Giovanni Bertoni (50), che fu depennato nel 1959 dall’elenco dei 67 martiri con una nota del ministero della difesa poiché si trattava di una spia, che il racconto romanzato di Indro Montanelli “il generale della Rovere” ha contribuito a rendere famosa
Primo Biagini (53) Carlo Bianchi (32) Marcello Bona (35)
Ferdinando Brenna (33) Luigi Alberto broglio (20)
Francesco Caglio (35) Emanuele Carioni (23) Davide Carlini (34)
Brenno Cavallari (51) Ernesto Celada (27) Lino Ciceri (21)
Alfonso Marco Cocquio (37) Antonio Colombo (40)
Bruno Colombo (18) Roberto Culin (36) Manfredo Dal Pozzo (40)
Ettore Dall’Asta (32) Carlo De Grandi (40) Armando Di Pietro (43)
Ezio Dolla (21) Luigi Ferrighi (55) Luigi Frigerio (43)
Alberto Antonio Fugazza (63) Antonio Gambacorti Passerini (41)
Walter Ghelfi (22) Emanuele Giovanelli (18) Davide Guarenti (36)
Antonio Ingeme (28) Jerzi Sas Kulczycky (39) Felice Lacerra (17)
Pietro Lari (37) Michele Levrino (63) Bruno Liberti (31)
Luigi Luraghi (23) Renato Mancini (30) Antonio Manzi (31)
Gino Marini (50) Nilo Marsilio (21) Arturo Martinelli (27)
Armando Mazzoli (49) Ernesto Messa (49) Franco Minonzio (33)
Rino Molari (33) Gino Montini (40) Pietro Mormino (37)
Giuseppe Palmero (20) Ubaldo Panceri (53) Arturo Pasut (38)
Cesare Pompilio (32) Mario Pozzoli (30) Carlo Prina (47)
Ettore Renacci (37) Giuseppe Robolotti (58) Corrado Tassinati (47)
Napoleone Tirale (55) Milan Trebsé (28) Galileo Vercesi (54)
Luigi Vercesi (30)

Questo fu la sequenza con il quale furono massacrati.

Ai 67 di Cibeno aggiungo Leopardo Gasparotto (42), figura altissima dell’antifascismo milanese, anch’egli imprigionato nel campo di Fossoli, trucidato il 22 giugno.
68 uomini perlopiù giovani che avevano alle spalle famiglie, amici, storie, e che avevano fatto una scelta per il Paese. Vite spezzate, che si aggiungono al macabro elenco di vittime del nazismo e del fascismo.

Non so se siano questi i fatti che qualcuno vorrebbe cancellare dai libri di storia, come nella vergognosa richiesta avanzata recentemente da un gruppo di deputati che chiede una commissione d’inchiesta su testi scolastici che, a parere dei promotori, ‘indottrinano’ i giovani e ‘plagiano le menti’.
Una proposta che nega in radice il valore della scuola e della cultura, che hanno il compito di diffondere il sapere critico nei giovani e di spingerli a riflettere su tutto ciò che accade intorno a loro e a non piegarsi a facili letture della società che semplificano i problemi, e a comprenderne appieno la complessità.
Non so se si riferisse a questo il Presidente del Consiglio quando disse che la scuola pubblica inculca valori da contrastare. So però che è dalla scuola che noi dobbiamo partire per non disperdere la memoria di queste vicende e l’impegno civico dei protagonisti e per continuare a raccontare ciò che è accaduto, soprattutto adesso che le generazioni protagoniste di quelle vicende sono ormai scomparse (…)

E so che la tendenza a rimuovere il passato e a parificare le diverse scelte compiute dai giovani di allora rappresentano un insulto alla memoria di quanti diedero la vita per la Patria e la sua libertà, così come un’ingiuria alla stessa nostra Costituzione, nella quale si è trasfusa, per dirla con le parole di Calamandrei “la grande idea per la quale hanno dato la vita”.
Recentemente, la Commissione Difesa della Camera ha dato mandato al relatore per riferire favorevolmente in Aula su una proposta di legge che prevede il riconoscimento giuridico e quindi anche la concessione di contributi finanziari pubblici a tutte, indistintamente, le associazioni combattentistiche e d’arma. Dietro alla proposta, quindi, sta la vergognosa volontà di riconoscere e sostenere anche quelle associazioni che riconducono la loro azione al cosiddetto “patriottismo” repubblichino, ovvero a quell’illegittimo fantoccio istituzionale che fu complice della follia criminale e omicida dei nazisti e di stragi come quella che ricordiamo oggi.
Lo Stato si appresta a finanziare chi difende la memoria degli aguzzini e non quella delle vittime. È l’ennesimo tentativo di equiparare i valori democratici, per i quali combatterono i resistenti e le potenze alleate, con gli obiettivi di nazisti e fascisti di Salò, che non hanno la stessa dignità, perché questi combattevano per negare la libertà, gli altri per restituirla al Paese (…)

La democrazia è soprattutto limite. Limite al potere di qualcuno per garantire il diritto di altri. Limite alla prepotenza per garantire i deboli. Limite alla concentrazione dei poteri perché solo nella loro separazione la democrazia vive. E finché questa Costituzione garantirà l’equilibrio dei poteri che qualcuno vuole scardinare, questo Paese resterà democratico. Dobbiamo ricordarlo soprattutto quest’anno, nel quale celebriamo il 150enario dell’Unità d’Italia.
Le vittime dell’eccidio di Cibeno provenivano da tante province diverse, prevalentemente del Centro-Nord, ed erano state internate per ragioni politiche. Rappresentavano un pezzo d’Italia. Dell’Italia migliore di questi nostri 150 anni. Esprimevano le diverse culture politiche antifasciste che combatterono la Repubblica fantoccio di Mussolini e l’invasore tedesco. Anche geograficamente, la loro provenienza eterogenea era il segno di come vi fosse un’altra Italia pronta a rischiare e a sacrificare la vita per la libertà e la democrazia.
La Resistenza è stata spesso definita il secondo Risorgimento e i due processi storici che condussero rispettivamente il nostro Paese all’Unità e alla Repubblica hanno numerose affinità politiche, morali e civili (…)

Ma la Resistenza rappresentò anche per certi versi il compimento del processo risorgimentale. Si sviluppò nel solco del cammino tracciato dai patrioti ottocenteschi per realizzarlo pienamente, integrando i valori liberali con istanze democratiche e sociali e facendo assumere a questo processo una dimensione più vasta (…)

La recente compatta partecipazione degli italiani agli eventi commemorativi del 150esimo e i forti sentimenti patriottici hanno dimostrato che c’è un Paese che non è disposto a perdere il valore intrinseco di quelle lotte, che dai patrioti risorgimentali arrivano fino ai partigiani e a coloro che contrastarono il fascismo e il nazismo.
Celebrare il 150esimo dell’Unità d’Italia significa ricordare da un lato le belle e gloriose pagine del nostro passato, dall’altro non dimenticare mai quelle più dolorose. La strage del Poligono racchiude entrambi questi elementi. L’eccidio appartiene da un lato alla storia dolorosa del nostro passato. La vita di quei giovani e il loro sacrificio a quella più gloriosa.
Alla loro memoria, qui sul luogo della strage, va il nostro commosso ringraziamento e quello dell’Italia intera.

* Si pubblicano alcuni stralci dell’intervento per la celebrazione dell’eccidio al Poligono di Tiro di Cibeno (12 luglio 1944)

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