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"Biotestamento. Il diritto di decidere", di Gianni Cuperlo

La Camera approverà una legge lesiva della dignità della persona: una norma toglie al malato la responsabilità di stabilire a quali terapie sottoporsi in caso di incoscienza irreversibile. È necessario garantire il diritto di ognuno a essere rispettato se in discussione è la vita e la decisione su di sé. In tanti hanno denunciato il rischio di una legge impietosa, ora è bene che queste voci si levino alte

Alla vigilia di un voto rivelatosi per loro una debacle, persino del testamento biologico la maggioranza si era spinta a fare un’arma di campagna elettorale. Per fortuna l’elettorato si è mostrato assai più maturo della destra. Ma adesso siamo al dunque e domani salvo sorprese la Camera licenzierà una legge ideologica, incostituzionale e lesiva della dignità della persona. L’arbitrio maggiore è in una norma che sottrae al malato la responsabilità di decidere a quali terapie sottoporsi nel caso di una condizione irreversibile di incoscienza e di incapacità di intendere e di volere. Sul punto il testo prevede una soluzione irrazionale e in aperto contrasto col principio del rispetto della persona umana sancito dall’articolo 32 della Costituzione. Come altri, penso anch’io che la relazione di ciascuno con la fine della vita non sia, in termini legali e sul piano materiale, un fatto soltanto individuale. Molti elementi concorrono a fissare quella relazione: i legami affettivi, il rapporto fiduciario con i medici, l’ambito della ricerca. Su di un piano parallelo, abbiamo alle spalle un tempo storico durante il quale sia l’ordinamento giuridico che la deontologia medica, e aggiungo il maturare della coscienza civile, hanno affermato una serie di acquisizioni. Ne cito almeno tre. Il diritto al consenso informao. La inviolabilità dell’individuo in rapporto a eventuali terapie. E infine, profonda eredità del ‘900, la dignità del soggetto e il rigetto di qualsiasi concezione dello Stato tale da trasferire l’esistenza individuale nella disponibilità di un potere esterno all’individuo stesso. Il rispetto di queste acquisizioni è parte di una idea contemporanea della democrazia e dello stato di diritto mentre nulla ha a che fare con un presunto relativismo morale. Se queste sono le premesse, quando si ragiona su una buona legge in materia di fine vita non è in discussione una concezione del vivere e del morire, aspetto che attiene alle convinzioni soggettive o collettive di comunità civili e religiose. Lo ricordo perché se il traguardo della politica è condurre i diversi convincimenti morali a un assoluto senza distinzioni l’esito non potrà che essere di tipo autoritario e questo perché a seconda dei rapporti di forza si determinerebbe l’imposizione di un’etica sulle altre, il che in una democrazia non può mai accadere. Quindi, almeno in democrazia, per quanti sono chiamati a scrivere le leggi il tema non è riversare nella regola la propria concezione della vita o della dignità del vivere. Compito dei legislatori è individuare una norma che in ragione della sua universalità garantisca a ogni persona il diritto a vedere rispettata la propria dignità quando in discussione siano la sua vita, il suo giudizio sulla propria esistenza e la decisione su di sé. Purtroppo è esattamente su questo punto che la legge del governo esprime tutta la propria arroganza. Nel sottrarre, con una logica prescrittiva, il corpo del malato alla persona del malato. In questa scissione insensata tra il potere dello Stato sul corpo e la riduzione della coscienza a fattore non vincolante nelle decisioni della persona c’è la contraddizione di una normazione regressiva. Ma è esattamente ciò che loro intendono fare in violazione delle norme costituzionali, dei principi sanciti in una serie di trattati e protocolli internazionali e, infine, in aperto contrasto con un criterio di umanità. Potrei citare a sostegno le sentenze della Consulta a partire dal diritto della persona di “disporre del proprio corpo”, ma stiamo alla sostanza e al fatto che le relazioni tra il malato, i suoi affetti più cari e le strutture mediche che lo hanno in carico non possono in alcun caso sottrarre a me, e dunque alla singola persona, la decisione responsabile sulla mia vita e su ciò che io considero compatibile con la mia dignità. Qui c’è il punto delicato che riguarda il tema della vita come bene indisponibile. Ora, la formula sembra dotata di una sua forza oggettiva ma non è così. Sulla base delle leggi esistenti non è così. Quando un malato, cosciente delle conseguenze, rifiuta una terapia egli esercita il diritto a disporre della propria vita. E ciò accade dinanzi al rifiuto di un’amputazione o di una trasfusione.
In quella scelta – sofferta, tragica, ma libera – vi è la forza di un diritto mite che non sottrae alla persona la possibilità di decidere ciò che è più giusto per sé. Dunque non è vero che la vita in sé sia un bene indisponibile in termini assoluti. È vero, invece, che la vita di ogni singola persona non è un bene disponibile ad altri che a sé medesima. Come la legge stabilisce. Come il diritto prevede. Come la nostra civiltà ha riconosciuto. Ed è una questione di principio dalla quale discendono due snodi decisivi: il carattere vincolante della Dat e il ruolo riconosciuto del fiduciario laddove tra la dichiarazione anticipata e il momento di un’eventuale decisione terapeutica sia trascorso un tempo tale da esigere una attualizzazione della volontà del soggetto.
In tanti, nei mesi passati, hanno denunciato i rischi di una legge impietosa e hanno spiegato che a fronte di una brutta legge sarebbe preferibile non legiferare. In molti siamo d’accordo e ci batteremo per questo. Ma tanto più i riflettori vanno accesi perché la questione entra ora nell’ultimo miglio ed è bene che queste voci si levino alte. Come ha fatto l’appello promosso dall’Associazione “Democrazia Esigente” pubblicato nei giorni scorsi su l’Unità, sottoscritto da personalità, operatori, parlamentari e che in modo equilibrato rivendica un sussulto di dignità da parte del Parlamento. Sarebbe un errore grave se la politica, per ragioni di convenienza, chinasse gli occhi di fronte a uno sbrego di civiltà e a uno strappo tale nella tradizione più elevata del nostro pensiero laico e costituzionale.E allora se è vero – ed è vero – che nel paese il vento sta cambiando, facciamolo capire anche da una battaglia così decisiva e che molto dirà sull’Italia di domani.

l’Unità 11.07.11