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"Così si apre la strada a tante cause legali", di Umberto Veronesi

Ho avviato sei anni fa in Italia la campagna di sensibilizzazione a favore del Testamento Biologico, per allineare l’Italia ai Paesi civilmente avanzati – ad esempio gli Usa, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna – come è, e sempre è stato il nostro. È stata per me una battaglia culturale per l’evoluzione di un pensiero in cui credo da sempre: il pensiero laico, libero, trasversale. Ho scritto, come autore unico o insieme ad alcuni dei nostri migliori giuristi, cinque libri sul tema della libertà e il diritto di accettare o rifiutare le cure in ogni circostanza, sulla base delle convinzioni personali. Questo è infatti l’obiettivo del Biotestamento ovunque nel mondo: mettere sempre al centro di ogni decisione la volontà della persona.

Avevo anche qualche ambizione in più. Ho sempre pensato che il testamento biologico – cioè l’espressione anticipata delle proprie volontà circa le cure che si vogliono o non si vogliono ricevere, in caso di perdita della facoltà di esprimersi di persona – potesse avere anche un valore educativo, perché obbliga ognuno ad affrontare i temi esistenziali, a dibatterli con altri e a interrogare se stesso su come vorrebbe concludere il proprio ciclo biologico, nel caso tale evento grave si realizzasse. Un dibattito utile quindi alla formazione di una personalità consapevole e cosciente sul grande tema dell’autonomia di decisione. La discussione su questi argomenti inizia nel mondo nel 1983, a seguito dell’incidente di Nancy Cruzan, che a soli 26 anni la fece piombare in uno stato vegetativo permanente irreversibile.

La sua famiglia, dopo varie petizioni e ricorsi, ottenne nel 1990 l’autorizzazione della Corte Suprema degli Stati Uniti alla sospensione della nutrizione artificiale. Da qui nacque il movimento right-to-die, per il diritto di morire, e i successivi movimenti civili per riappropriarsi delle decisioni di fine vita, di fronte a una medicina che stava diventando sempre più potente e invasiva, capace addirittura di tenere artificialmente in vita (se vita la possiamo definire) un corpo ridotto a un vegetale, senza coscienza, senza percezioni visive e uditive, né percezione del dolore.

Prima ancora, nel 1978, l’olandese Van den Berg scrisse «Medical Power and Medical Ethics», che in vari Paesi ha portato all’introduzione del «living will», la volontà di vivere, tradotto in italiano appunto «testamento biologico». In realtà la discussione sulla bioetica nasce in precedenza, negli Anni 70, quando l’americano Van Potter, con il libro «Bioethics, bridge to the future», coniò questo termine con un significato preciso: l’etica medica deve ispirarsi alla biologia della vita dell’uomo e opporsi all’invasione della tecnologia nella medicina.

Credo che molti bioeticisti non conoscano l’origine e il significato del pensiero di Van Potter. Cosa c’è di più tecnologico e artificiale che mantenere in vita forzatamente un insieme di organi? Eppure questo farà il disegno di legge approvato ieri, caso unico nel mondo occidentale: ci imporrà per legge la vita artificiale. E così chi, come me, si impegna per il progresso della cultura viene profondamente tradito. Ed è soprattutto tradita un’ampia parte della popolazione che si affida con fiducia alle istituzioni e alle persone che guidano il proprio Paese. La gente è molto più consapevole, cosciente e pronta all’autodeterminazione di quanto si possa pensare e, come rivelano tutti i sondaggi, è a favore del testamento biologico come strumento di espressione di volontà individuale.

Di fronte a questa realtà noi promotori originari del testamento biologico in Italia dichiariamo che è meglio nessuna legge che una legge traditrice, e chiediamo di fermare un iter legislativo che, anche qualora sfociasse nella approvazione di Camera e Senato, non potrà che ritornare nelle Corti e creare cause su cause e ricorsi su ricorsi. Il disegno di legge attuale infatti calpesta con evidenza l’articolo 31 della Costituzione italiana, oltre che la volontà della maggioranza dei cittadini. Senza questa legge, la questione di fine vita invece uscirebbe dai tribunali e ritornerebbe a essere discussa caso per caso, in scienza e coscienza dai medici e in libertà dai cittadini. Da tutti i cittadini, da chi crede nella sacralità della sua vita e la considera un dono di Dio e un bene non disponibile, e da chi invece crede nella sua inviolabile responsabilità e libertà.

La Stampa 13.07.11