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"La «dissolvenza» degli archivisti: entro il 2016 in pensione l’80%", di Jolanda Buffalini

A rischio la «memoria» storica che giace custodita negli spazi del Mibac: il blocco del turn over dei dipendenti provocherà nel giro di un lustro la quasi estinzione di personale specializzato in biblioteche e archivi. Una sindrome di smemoratezza collettiva incombe sul paese non a causa di uno di quei movimenti tellurici che producono incolmabili cesure nella storia dell’umanità (dalla glaciazione
alle rivoluzioni, alle guerre mondiali). L’alzheimer collettivo si sta producendo per blocco del turn over. L’80 per cento dei dipendenti del Mibac (il Ministero dei beni culturali e ambientali) andrà obbligatoriamente in pensione entro i prossimi 4-5 anni. «Fannulloni», direbbe il ministro Brunetta beccandosi l’epiteto di cretino dal collega Tremonti.
Ma non solo: archivisti, bibliotecari, archeologi, storici dell’arte, informatici. Professionalità fondamentali che non hanno modo di trasmettere la loro esperienza a chi verrà dopo. Perché dopo non c’è nessuno, nonostante la generazione di precari che cerca di farsi strada sia la più formata della storia repubblicana.
Ugo Gallo, funzione pubblica Cgil di Roma, fa l’esempio degli archivi di Stato cittadini, dove sono conservati i documenti dei tribunali, dei catasti, della leva, dei notai.
Da Milano a Livorno, a Viterbo, da Napoli a Palermo, Perugia o Savona, ogni capoluogo ha il suo archivio, secondo l’impianto dello Stato unitario. In tempi di Prima Repubblica divenne famoso l’Archivio di Benevento per le assunzioni fatte dalla Dc. Ma ora? Ora in cinque anni resteranno in tutta Italia 150 archivisti, che saranno pensionati entro 10 anni. Eppure quelle carte polverose nascondono un patrimonio prezioso per l’umanità. Nell’Archivio di Roma a Sant’Ivo alla Sapienza, per esempio, che ha ereditato le carte Pontificie, ci sono gli atti dei processi a Caravaggio, l’inchiesta sul suicidio di Borromini, i verbali delle ultime ore di Giordano Bruno e di Beatrice Cenci, assistiti dalle confraternite della buona morte. C’è traccia del passaggiom nella città dei papi di grandi artisti come Velasquez, che si rivolse a un giudice capitolino per riconoscere un figlio naturale. Nella sede periferica di Portonaccio, invece, dove sono conservate le carte postunitarie, ci sono gli atti e i reperti del processo Matteotti, compresi i vetrini con il sangue del martire antifascista.
Racconta il direttore Eugenio Lo Sardo che a Filadelfia è in corso una mostra con carte dell’Archivio su John Wilkes Booth, l’assassino di Lincoln, che si era arruolato negli Zuavi. Senza personale e senza spazi, l’Archivio conserva l’epistolario di Aldo Moro dalla prigione delle Br ed è in attesa di ricevere le carte dei grandi processi sul terrorismo e sulle trame degli anni Settanta che si sono svolti nella capitale. Lo Stato cartolarizza e dismette ma poi non sa dove sistemare un patrimonio di importanza mondiale e non si preoccupa di sostituire le professionalità in uscita: «È un’autentica mutazione, – sostiene Ugo Gallo – perché sono ormai saltate due generazioni. Si tratta di esperienze professionali che necessitano di molti anni per essere trasferite, senz’altro più di quei quattro-cinque che ci separano dal baratro: questo significa che nel baratro ci siamo già, perché nessuno propone un progetto».

L’Unità 14.07.11

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