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"Cresce la pressione fiscale Colpite le famiglie più deboli", di Raffaello Masci

Le opposizioni (e si capisce), ma anche i sindacati, le Regioni, il forum delle Famiglie (cioè i vescovi), le associazioni non profit. Il coro di chi protesta contro il taglio lineare dei 483 tra bonus fiscali e agevolazioni che potrebbe scattare nel 2013 in assenza del varo della riforma fiscale, è numeroso, forte e dà voce alle famiglie italiane sulle quali, in massima parte, ricadranno tutte queste sforbiciate. Il perché di tanta rimostranza, semmai fosse necessario argomentarlo, è tutto in un numero: l’abbattimento dei bonus vale 20 miliardi, quindi circa 1,2% del Pil. Di conseguenza la pressione fiscale raggiungerà quota 43,7%. Pagheremo di più per avere di meno: il senso è questo.

Ad andarci di mezzo subito saranno le Regioni e gli enti locali, soggetti principali dell’erogazione dei servizi. Tant’è che la prima voce ad alzarsi contro questa falcidia è stata quella del presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani. «Lo squilibrio dei tagli proposti dalla manovra – ha spiegato Errani sta nel fatto che questi gravano in modo insopportabile su Regioni ed enti locali. Basti pensare che poco meno del 50% dell’intervento finanziario pesa sui bilanci delle Regioni, e questo rappresenta un’ingiustizia e necessita di un serio riequilibrio. L’idea di dar luogo a un vergognoso scaricabarile istituzionale non è assolutamente praticabile».

Errani poi giudica la reintroduzione dei ticket sanitari, con i quali tutti dovremo fare i conti da lunedì prossimo, «una scelta gravissima che tocca il portafoglio degli italiani e che peraltro non contribuisce in alcun modo al finanziamento del Servizio sanitario nazionale e che, semmai, può dirottare la fornitura di determinati servizi verso il privato che proprio a causa del ticket guadagnerebbe una posizione di privilegio sul mercato».

Il dipartimento economico della Cgil ha prodotto uno studio sugli effetti della manovra e ne ha quantificato l’impatto tra i 1.200 e i 1.800 euro annui a nucleo familiare, con la specificazione che sarà soprattutto il lavoro dipendente a doversene fare carico. Lo ha ricordato anche la segretaria del sindacato, Susanna Camusso: «Quando si dice che si interviene sulle detrazioni – spiega – bisogna ricordare che la prima quota di detrazioni sono di protezione al reddito e che la seconda sono gli assegni familiari, cioè le detrazioni per i figli. Siamo di fronte, quindi, a una manovra che, partita per cambiare le aliquote e abbassare le tasse, si risolve nell’appesantire la pressione fiscale per lavoratori e pensionati».

Errani e la Cgil – si dirà – corrono con la sinistra, ma il Forum delle Famiglie, emanazione dei vescovi, è di tutt’altra sensibilità. Eppure tra le posizioni più dure contro i «tagli lineari» c’è proprio quella di questo organismo: «Noi – dice il vicepresidente Roberto Bolsonaro – avevamo individuato delle priorità su cosa tagliare tra le 483 voci di bonus e agevolazioni. Invece il governo cerca la guerra frontale con le associazioni delle famiglie. Non si può tagliare in maniera indiscriminata su tutto. La possibilità di fare scelte c’è, certo si scomoda qualcuno, ma un governo deve saper fare delle scelte». E il vescovo Mario Toso, segretario del pontificio consiglio Giustizia e Pace, se la prende proprio con il Pdl che, in quanto «partito di ispirazione cristiana» (fa parte del Ppe), non dovrebbe «considerare un’ulteriore penalizzazione della famiglia, tanto più che è rimasta uno dei pochi ammortizzatori sociali ancora in funzione». Anche il presidente dell’Agenzia per il terzo settore, Stefano Zamagni, commenta negativamente la scelta dei tagli alle agevolazioni fiscali: «Hanno scelto l’efficienza a scapito della giustizia redistributiva».

«La situazione – conclude la sociologa Chiara Saraceno – impone sacrifici per tutti, ma una politica di pura austerità, che non considera le condizioni per arrivare al domani, rischia di essere una manovra suicida: non si consuma più. Ma – insiste – non si può vivere solo di esportazioni». «Se proprio si dovevano ridurre le detrazioni – sostiene – l’intervento doveva riguardare altri familiari a carico, non i figli minori o quelli che studiano regolarmente. Tutto ciò succede in un Paese in cui esiste pochissimo per i figli. Le detrazioni non sono misure eque: sono più vantaggiose per i redditi alti che per quelli bassi o gli incapienti. Andava pure fatto un “disboscamento”, indubbiamente, ma in cambio di servizi».

La Stampa 15.07.11

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“NON COLTIVIAMO TROPPE ILLUSIONI”, di ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI

I mercati non si sono tranquillizzati. Martedì pareva che si fossero un po’ calmati, ma solo perché la caduta dei prezzi era stata arrestata dall’intervento della Banca centrale europea che ha acquistato molti titoli pubblici italiani. Ma c’è un limite a quanto anche la Bce possa fare. Un’alternativa è che sia il Fondo europeo per la stabilità finanziaria ad acquistare titoli italiani, ma ciò significherebbe rendere ancor più trasparente il trasferimento fiscale dai contribuenti tedeschi a quelli italiani. Ma la riluttanza della Germania a farsi carico dei problemi di altri Paesi è sempre piu evidente. Ecco perché gli investitori si stanno chiedendo se l’Italia possa farcela da sola. Da lunedì scorso la nostra posizione è cambiata: ora non stiamo più con Francia e Germania nel gruppo dei Paesi «sicuri» , ma con la Spagna: il rendimento dei Btp italiani è ormai uguale a quello dei titoli spagnoli e lontano trecento punti dagli analoghi Bund tedeschi e dagli Oat francesi. Ciò significa che gli investitori non pensano più che un default dell’Italia (l’incapacità cioè di rimborsare i titoli di Stato) sia un evento con possibilità pressoché nulla. A questi prezzi, sui mercati si calcola che, in un orizzonte di cinque anni, la probabilità che l’Italia possa restituire solo 50 centesimi per ogni euro avuto in prestito è pari al 20%. Un default italiano rimane comunque una possibilità molto remota, ma ciò che si sta facendo per evitarlo non basta. È per questo che la nuova manovra finanziaria non ha convinto i mercati. Per due motivi: le misure sono ancora troppo sbilanciate sul 2013 e 2014, cioè dopo le prossime elezioni. Nel 2011 la manovra sarà di tre miliardi, di sei nel 2012 su una dimensione totale di 79 miliardi. Si deve anticiparne e di molto l’impatto. È per di più troppo sbilanciata sul lato delle entrate e fa poco sul taglio delle spese. L’annuncio che ripartiranno le privatizzazioni «nel 2013» , cioè quando ci sarà un nuovo governo, anziché tranquillizzare i mercati li ha probabilmente preoccupati ancor di più, perché rende evidente che considerazioni elettorali prevalgono sulla gravità della situazione. Inoltre l’Italia paga il fatto che misure per la crescita, deregolamentazione di certe professioni, miglioramenti nel campo della giustizia civile e nei costi burocratici per le imprese, vengono annunciati all’ultima ora sull’orlo del tracollo invece che costruite con calma anni orsono. E anche questo i mercati lo capiscono benissimo: danno cioè l’impressione di essere scelte preterintenzionali e non meditate. L’esperienza di altre crisi finanziarie insegna che la metà di agosto è un momento propizio per gli attacchi: i mercati sono poco liquidi e le decisioni di un piccolo numero di investitori sono facilmente amplificate. È accaduto nell’agosto del 1998 con il default della Russia e nell’agosto del 2007 quando scoppiò la crisi dei subprime americani. Il governo ha poche settimane di tempo per evitarlo. Ma ciò non significa concentrarsi su misure contabili di breve periodo che aumentano una pressione fiscale già alta. Bisogna anche annunciare riforme credibili che accelerino la crescita. È vero che queste riforme strutturali non daranno risultati sullo sviluppo immediati, ma in questo momento l’effetto annuncio, se credibile, può molto aiutare. I mercati devono convincersi che l’Italia sta cambiando passo. Altrimenti chi vorrà continuare a investire in un Paese che non cresce? Illudersi di avercela fatta solo perché stiamo per approvare questa manovra sarebbe un errore gravissimo.

Il Corriere della Sera 15.07.11