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"Università, in autunno si tornerà sui tetti", di Walter Tocci

In parlamento si torna a discutere della legge Gelmini. Giovedi scorso la commissione cultura ha esaminato il primo decreto attuativo relativo alle procedure di abilitazione dei professori universitari.
Arriva con grande ritardo e non è immediatamente attuativo, perché rinvia a successivi provvedimenti proprio le questioni più importanti: criteri di valutazione e settori concorsuali. Un decreto chiama l’altro, ma non sono ciliegie. È una sequela burocratica con l’unico scopo di fare melina e tenere bloccati più a lungo possibile i concorsi – sono passati ormai tre anni – per consentire al sistema di assorbire i tagli di Tremonti.
In commissione il Pd ha votato contro la proposta governativa e ha chiesto la presentazione di un nuovo testo contenente tutti gli elementi necessari per un’immediata attuazione delle procedure di valutazione.
Ben altro impegno ha mostrato la ministra sul fondo per il merito, imponendo una repentina modifica dopo solo tre mesi della legge 240 per creare un altro carrozzone pubblico, una fondazione con relativi presidente e consiglio di amministrazione incaricata della gestione. Per adesso siamo ancora alla fuffa di dichiarazioni di principio, ma già si intravede dove vogliono andare a parare.
I soldi sono pochi per il diritto allo studio, circa 100 milioni, cioè quasi la metà di quanto versano gli stessi studenti con la tassa regionale e pari al 5-6 per cento del finanziamento pubblico stanziato in Francia e Germania, rispettivamente 1,6-1,9 miliardi di euro. Eppure, la ministra intende stornare una quota di questi finanziamenti verso la Fondazione per il merito – che opera a prescindere dal reddito – per estendere i sussidi anche ai figli di papà. Se il figlio di una famiglia ricca va bene negli studi non ha certo bisogno di essere aiutato con qualche centinaia di euro dallo stato, ma semmai a lui e a tutti i meritevoli, a prescindere dal reddito, andrebbero offerte opportunità di alta formazione, ad esempio serie scuole di specializzazione, e in presenza di motivazioni anche attività di ricerca. Il sussidio pubblico, soprattutto se le risorse sono scarse, andrebbe invece concentrato solo sui meritevoli che non ce la fanno a sostenere i costi degli studi. Almeno così dice la nostra Costituzione.
Il sussidio ai figli di papà ha trovato largo consenso nel dibattito, nonostante siano più forti in Italia le differenze sociali nella formazione dei giovani, i quali si trovano esposti ad almeno tre trappole che impediscono il pieno sviluppo delle capacità. C’è innanzitutto una trappola cognitiva poiché la quota di laureati figli di non diplomati è al di sotto degli standard europei. Ormai solo ai figli di avvocati, di imprenditori ecc. sono assicurate le stesse opportunità dei genitori. C’è una trappola territoriale evidenziata, ad esempio, dal fatto che gli studenti idonei senza borsa sono concentrati quasi esclusivamente nelle regioni del Sud. Infine, c’è una trappola sociale e va crescendo sotto i morsi della crisi. Sono i figli delle famiglie più povere e del ceto medio in difficoltà a rinunciare agli studi universitari perché non ce la fanno a sostenere i costi o perché si vanno convincendo che la laurea non garantisce più un’occupazione adeguata. E forse la tendenza è stata aiutata anche dal silenzioso aumento della tasse universitarie del 30 per cento negli ultimi tre anni, praticato dagli atenei senza rispettare l’attuale limite di legge.
Comunque, l’effetto immediato della legge 240 consiste nella paralisi dell’università.
La stretta burocratica e i tagli finanziari convergono nel produrre un sistema universitario più piccolo, più rigido e più sottomesso. E di conseguenza gli atenei diventano sempre difficili da governare.
A tale esito ha contribuito la crisi della leadership accademica, che è, a mio avviso, la ragione fondamentale della crisi dell’università italiana.
Si sono infatti inariditi i processi di formazione della classe dirigente e non emergono più all’interno dell’accademia quelle personalità capaci di convincere la comunità scientifica senza ricorrere alle norme, ma in virtù della propria autorevolezza e del prestigio culturale o morale. I dirigenti accademici ricorrono all’intervento esterno per porre fine alle discussioni accademiche con il sigillo della legge. Ma in questo modo contribuiscono a indebolire il prestigio dell’istituzione che dirigono.
Paradossalmente l’unico tentativo di restituirela credibilità all’università italiana è venuto dagli studenti, dai giovani ricercatori e in generale dai professori meno impegnati nelle burocrazie accademiche.
Sono andati sui tetti, come a dire la volontà di riportare in alto il rango dell’istituzione universitaria.
E allora in autunno dovrà continuare a farsi sentire questa voce. Bisogna riprendere la mobilitazione per fermare i guasti prodotti dal governo e per cominciare a tracciare una via nuova di autentica riforma. E in questo impegno dovranno tornare a darsi la mano la mobilitazione negli atenei e l’opposizione nel parlamento, come avvenne lo scorso dicembre.

da Europa Quotidiano 23.07.11