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Colloquio con Fulvio Esposito, rettore di Camerino: «Altro che teatrino delle cifre. I precari questione morale», di Mariagrazia Gerina

Qualche responsabilità se le cose stanno così ce l’avranno anche i rettori.
C’è voluto un po’ di tempo. Ma il malcontento venato di autocritica sembra cominciare a farsi largo anche tra di loro. «Quello che è mancato da parte dei rettori in questa fase storica è stato far sentire la loro voce forte al paese piuttosto che privilegiare una interlocuzione limitata ai corridoi del ministero», osserva, senza troppi giri di parole, il rettore dell’università di Camerino, Fulvio Esposito: «Senza ricerca questo paese è condannato al sottosviluppo, se costringiamo i nostri talenti migliori ad andare all’estero o a fare altro, quando ci sarà la ripresa, saremo tagliati fuori. E non è con il teatrino della parolina un po’ più dura o della parolina un po’ più morbida che si cambiano le cose». L’università – dice Esposito – in questo momento dovrebbe essere l’oggetto di un discorso alla nazione da parte dei rettori. «Poi il ministro si siede in prima fila e ascolta anche lei».
Una delle parole chiave di questo discorso – spiega il rettore di Camerino – dovrebbe essere «questione morale»: «Non ho paura di usare questa espressione. Alcuni dicono: se il paese è così, perché l’università dovrebbe essere meglio? Io penso che proprio perché siamo l’università dovremmo dimostrare che un altro paese è possibile. Forse non siamo stati peggiori della media. Ma non siamo stati nemmeno la Città del Sole che dovremmo essere». La più grande questione morale che l’università deve affrontare in questo momento? Il precariato. «Ben vengano i meccanismi di valutazione, perché il rapporto di discepolo-maestro è un retaggio del passato. Però a un ricercatore che ho sperimentato e ho visto che vale non posso dirgli: sei stato bravo, si vedrà. Il precariato a vita è immorale. Tutte le università in questo momento stanno impiegando percentuali molto vicine al 100% per pagare gli stipendi di chi è già dentro. Io capisco la riluttanza a impiegare risorse in un sistema che non funziona come dovrebbe ma non si può tagliare di netto una intera generazione».
L’altra parola-chiave è la meno frequentata: «Noi siamo fuori dal dibattito europeo sulla ricerca e sull’università». Prendiamo l’abilitazione: «Rischiamo di perdere tempo a reinventare la ruota, se stiamo mesi a cercare soluzioni che in Europa si sono trovate già. Il criterio di valutazione che va bene per i chimici non va bene per gli architetti o per i filosofi, sento dire. Ma in Europa questo è già stato superato: ci sono quattro livelli – dottorando, ricercatore, associato, ordinario – e per ciascuno sono stati individuati dei profili. Ma se neppure si va sul sito dell’Unione europea…».
Quello che bisogna ridisegnare sono le priorità: «Io credo che mettere un po’ di soldi sul futuro dei giovani talenti migliori dovrebbe essere una priorità per il paese. Sarà semplicistico, ma forse basterebbe un po’ di lotta all’evasione per trovare le risorse». Il finanziamento della ricerca – osserva Esposito – è un «dovere pubblico». In Italia la realtà è un’altra: «Noi rettori le risorse ormai dobbiamo andarcele a cercare e l’esito varia molto da territorio a territorio».
L’ultima parola riguarda i processi di partecipazione. «È un errore non coinvolgere studenti, ricercatori, personale tecnico-amministrativo nelle scelte che riguardano l’ateneo», osserva Esposito, a proposito delle contestazioni che ci sono in molte università sugli statuti. Lui – assicura – nel suo ateneo ha cercato di fare così («Il rettore da noi lo votano anche 60 studenti su 400 votanti»). Ma – ammette – la questione è più generale.
E «forme adeguate per garantire la partecipazione non le abbiamo ancora trovate».
Obiezione: tutto giusto, la nazione può anche condividere, è il governo piuttosto che non ci sente.
«Sì ma il governo ha sempre un problema: il consenso».

da L’Unità

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«Atenei già al collasso Senza risorse che senso ha parlare di merito?», di Mariagrazia Gerina
Parla il presidente della Conferenza dei rettori italiani Marco Mancini: «Con i tagli previsti non riusciremo neppure a pagare gli stipendi di chi è già dentro mentre ci vogliono risorse per reclutare nuovi ricercatori»

Studenti e ricercatori li accusano di non aver levato la voce contro la riforma Gelmini. Ma anche i rettori hanno qualcosa da dire su come il governo sta trattando l’università. Le risorse, già scarse, nel 2012 saranno ancora meno. «Così arriveremo al collasso», avverte il nuovo presidente della Crui Marco Mancini, 54anni, rettore dell’università della Tuscia, che in queste settimane ha voluto incontrare sia il presidente della Repubblica che il ministro Gelmini.

Partiamo proprio dai tagli. Perché questo appello ora?
«Nel mese di luglio si comincia a ragionare sulla legge finanziaria, che immagino sarà presentata a settembre. I conti dicono che la situazione è drammatica: il 2012 si presenta con un taglio del 5,5% rispetto all’anno precedente e del 12% a partire del 2009, senza contare l’inflazione. Così arriveremo al collasso».
Che vuol dire collasso?
«Che il sistema universitario non riesce più a coprire nemmeno gli stipendi. E quindi si trova nell’impossibilità di servire la sua missione: ricerca e didattica. Sono fatti aritmetici. Lo scorso anno ottenemmo un finanziamento aggiuntivo, una tantum, di 800 milioni di euro, che di fatto era un ripristino di ciò che ci veniva tagliato. Quest’anno la somma messa a bilancio è di 500 milioni di euro: 300 di meno della somma delle spese per stipendi sostenuta dagli atenei».
Lei sottolinea il «fatto aritmetico».Ma a una situazione del genere non ci si arriva solo per colpa dell’aritmetica…
«No, certo. Al ministro abbiamo segnalato anche che il fondo per il diritto allo studio che è praticamente azzerato: così si intacca ciò che la Costituzione stessa garantisce ai nostri studenti. Come atenei abbiamo cercato di fare la nostra parte, muovendoci in un orizzonte di riduzione di spesa. Ma con le cifre di cui stiamo ragionando non si potrà parlare di meritocrazia né di niente il prossimo anno. È come se stessimo fabbricando delle nuove automobili sapendo che quando saranno pronte non ci sarà più benzina per farle camminare».
Per fare le auto però vi ritrovate a fronteggiare la contestazione negli atenei sugli statuti.
«Era inevitabile, che in un momento così delicato le dialettiche esterne si prioettassero all’interno dei singoli atenei. Le componenti più fragili, precari e ricercatori, in un momento così drammatico sono i primi ad essere colpiti».
E quali sono stati i vostri antidoti?
«Abbiamo detto che il processo statutario doveva avvenire dentro una dialettica democratica e di partecipazione. Però ogni università ha la sua storia e autonomia».
Più in generale studenti e ricercatori vi rimproverano di essere stati dalla parte del ministro durante la riforma.
«La conferenza dei rettori ha sempre ritenuto che l’università avesse bisogno di una legge di riforma. Quello che mi pare importante è che stiamo rivendicando una azione forte nei confronti del governo per garantire che questo bene prezioso che sono le università non siano cancellate. Io sono diventato presidente da poco. E questo per me è il primo obiettivo. Perciò ho voluto l’incontro con il ministro e con il presidente della Repubblica».
Al ministro però avete chiesto anche di rivedere il tetto che limita al 20 % le entrate dovute alle tasse.
«Quella era una provocazione al ministro. Non abbiamo alcuna intenzione di far pagare una crisi strutturale agli studenti. Oltretutto la legge impedisce di utilizzare la contribuzione per pagare gli stipendi».
Però le tasse sono aumentate…
«Sì ma non superano il tetto del 20%, nel più dei casi».
Lei dice: la questione è la benzina. E la riforma, approvata a dicembre, che cosa sta determinando negli atenei?
«In questi mesi, gli atenei hanno molto discusso spesso con tensioni interne sui propri assetti. Ma il processo è positivo. Anche se i decreti per attuare la riforma sono ancora in itinere. E stanno uscendo con un po’ di fatica, dovuta a passaggi istituzionali e burocratici. Credo che quando questo complesso normativo sarà attuato, la riforma potrà partire con il piede giusto. E potremo occuparci di didattica e di ricerca».
Ma come se nel frattempo i ricercatori precari se ne saranno andati?
«Se le persone vanno via vuol dire che l’università non potrà più avvalersene e nemmeno il Paese. Lo abbiamo segnalato al presidente della Repubblica come problema più drammatico. E si è dimostrato sensibilissimo».
E il ministro?
«Anche lei».
Ma intanto non riuscite più ad assumere neppure i vicintori di concorso.
«Per le assunzioni legate al fondo Mussi le risorse ci sono, per quelle legate ai fondi di ateneo, non potendo spendere più del 90% del bilancio per spese fisse, gli atenei hanno le mani legate. Abbiamo chiesto al ministro di rimuovere questo limite. Per il futuro stiamo seguendo con attenzione i decreti sull’abilitazione e sulla ripartizione dei fondi conseguenti. Molti ricercatori hanno l’aspettativa di potere concorrere per diventare associati. E anche noi ci aspettiamo che il fondo di 13 milioni già stanziato si sblocchi al più presto. Ci vuole ricambio per sostituire i professori in pensione».
Nel frattempo però avete chiesto ai ricercatori di insegnare gratis.
«No, abbiamo solo detto che se volessero la norma lo consentirebbe».
E poi se loro andranno a insegnare la ricerca chi la fa?
«Questo è il punto cruciale. Poter reclutare i giovani per la ricerca. E avere le risorse per farlo. La maniera migliore di reagire alla crisi è formare una generazione di ricercatori che sappiano cambiare il funzionamento dello sviluppo del Paese. Se non lo facciamo non oso immaginare le conseguenze».
Qualcosa da dire sul commissariamento previsto dalla riforma?
«Che è una strada senza ritorno che rischia di uccidere gli atenei».

da L’Unità