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"Questione morale", di Michele Prospero

Chi l’avrebbe mai detto che il colloquio di Berlinguer sulla questione morale sarebbe diventato il manifesto dell’antipolitica? In quell’intervista a Scalfari di trent’anni fa la denuncia della degenerazione dei partiti era molto forte. Per certi versi, il leader comunista recuperava una linea sotterranea, sempre presente nella cultura politica italiana dell’Ottocento, che, già con Minghetti, temeva una inevitabile frizione tra il partito e l’amministrazione. A un governo degli onesti contro il malaffare si appellavano spesso nel secondo dopoguerra alcuni ambienti politici ed economici vicini ai repubblicani. Soprattutto Visentini vi faceva affidamento, trovando talvolta orecchie sensibili anche a sinistra allorché essa ammiccava a governi “diversi”. Ma Berlinguer non era un epigono della destra storica e nemmeno una quinta colonna di influenti minoranze
tecnocratiche. Il suo grido contro l’invasività della politica non era certo un invito a sbarazzarsi dei partiti in nome della autonomia del potere economico. Quello che su Repubblica descriveva a tinte fosche la ormai degenere realtà di partito era un Berlinguer in
difficoltà e costretto sulla difensiva. La politica della solidarietà nazionale si era arenata. La convergenza tra la Dc del preambolo (anticomunista) e il nuovo Psi (craxiano) era solo agli inizi ma già metteva fuori gioco il Pci. Quel rapporto di arido controllo del potere, che diede vita al pentapartito, in effetti approfondì la crisi storica della prima repubblica. La Dc conservava il suo potere coalizionale cedendo però la guida del governo a formazioni molto minoritarie. Il Psi acquisiva una centralità sistemica ben remunerata ma l’onda lunga dei consensi tardava a produrre effetti. Quella convulsa fase determinò, con la deroga esiziale alla regola aurea che vuole Palazzo Chigi appannaggio del partito di maggioranza relativa, anche una mutazione genetica dei socialisti, come snaturati per un eccesso di potere in confronto alle forze effettive raccolte nelle urne. Rispetto a questo sistema politico, Berlinguer cavalcava la carta della ripulsa totale dei rapporti di complicità stretti da partiti sempre più onnivori. Oggi si dimentica che, a sorreggere il radicale smascheramento della decadenza etica dei partiti quali protagonisti di un modello clientelare-collusivo di modernizzazione, era la
categoria più negletta e respingente del berlinguerismo, cioè quella di diversità. Contro i partiti di mero potere, Berlinguer evocava la nobiltà della causa ideale che solo un militante rivoluzionario poteva avvertire. Chi presenta oggi un improbabile Berlinguer teorico della politica leggera, cioè alfiere di un partito che si occupa solo delle regole e non della gestione del potere, occulta che per lui solo il militante comunista poteva cogliere, nelle insidie di un presente inospitale, il carattere sublime di una causa elevata di cambiamento da servire con uno spirito quasi religioso. Fino all’ultimo Berlinguer ha rivendicato la fertilità di una concezione leninista del partito
che rifiutava ogni omologazione a pratiche deteriori che l’avrebbero sì legittimato rendendolo però uguale alle altre formazioni politiche. Come è curiosa la cultura politica italiana. Proprio chi, e con più sdegno, ricusa la nozione quasi antropologica di diversità rilancia poi le ingiallite pagine sulla questione morale trascurando che la identità
comunista e la questione morale erano intrecciate irreversibilmente. Non si poteva prendere l’una e lasciar cadere l’altra, come pretende qualche maldestro macchinista dell’odierna antipolitica che fa di
Berlinguer un inerme paladino della politica debole da espellere da ogni postazione di comando per riverire possenti oligarchie economiche, giudiziarie e mediatiche.

L’Unità 29.07.11

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“Quando Berlinguer era comunista”, di Francesco Cundari
Con le polemiche sui casi Tedesco e Penati, a vent’anni esatti dalla sua pubblicazione, si torna a discutere della famosa intervista di Enrico Berlinguer sulla questione morale. Una riflessione che continua a dividere oggi, tutte le principali battaglie combattute all’interno della sinistra si sono svolte entro i confini di un identico canovaccio, un immaginario spazio della legittimità nel quale ciascuno, come in una danza, ha compiuto i suoi passi e le sue giravolte, senza mai uscirne. Una sorta di capoeira politico-culturale che ha al centro l’intervista di Enrico Berlinguer sulla questione morale, pubblicata su Repubblica il 28 luglio 1981. Intervista rievocata ancora in questi giorni su tutti i maggiori quotidiani, sull’onda delle inchieste che hanno toccato, questa volta, il Partito democratico, come in tutte le occasioni in cui scandali di qualsiasi genere ed entità hanno coinvolto, lambito o sconvolto gli eredi del Partito comunista italiano. Una specie di nemesi.
Quando il muro di Berlino e il Pci erano ancora in piedi, all’evocazione della questione morale (nel Paese) seguiva regolarmente la rivendicazione della (propria) «diversità comunista» e sempre più spesso la denuncia di un’irreparabile «mutazione genetica» (nei socialisti, colpevoli di avere scelto l’accordo con la Dc). Dall’altra parte, nel corso degli anni, si sarebbe replicato con l’accusa di moralismo, strumentalizzazione politica delle vicende giudiziarie, demonizzazione stalinista dell’avversario (e soprattutto dei partiti concorrenti nel campo della sinistra, come i socialisti). Questo canovaccio, con pochissime modifiche e ancor minori aggiornamenti, sarebbe sopravvissuto alla caduta del muro di Berlino, del Pci e del Psi. Persino il concetto di «diversità comunista», all’apparenza così inseparabile da quel tempo e da quel partito, sarebbe invece sopravvissuto (eccome!) alla fine del comunismo e alla conseguente perdita del corrispondente aggettivo.
Tanto che oggi, a difendere la trincea della «diversità» del Pd dagli attacchi di avversari e alleati sulla nuova questione morale che coinvolgerebbe il partito, in prima fila si possono trovare, per dire, Rosy Bindi o Dario Franceschini. In fondo, era ancora a questo antico copione che si riferiva implicitamente Pier Luigi Bersani nella sua recente lettera al Corriere della Sera, quando spiegava di non rivendicare, di fronte alle polemiche suscitate dai casi Tedesco e Penati, una «diversità genetica» del suo partito, ma di voler dimostrare una«diversità politica».
Il cuore della denuncia berlingueriana, in quella famosa intervista a
Eugenio Scalfari, consisteva nella denuncia della «occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti». Col tempo, da una rievocazione all’altra, sarebbe stata raccontata come un atto d’accusa contro i partiti in generale, quindi contro quel «consociativismo» di cui proprio Berlinguer fu additato come il massimo responsabile per buona parte della sua vita, infine direttamente contro l’invadenza della politica. Quasi che il segretario del Partito comunista italiano potesse essere una sorta di liberista ante litteram, un seguace di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, un fautore della separazione tra politica ed economia, delle privatizzazioni e del non-intervento dello Stato. L’obiettivo polemico di Berlinguer erano invece i partiti di governo e il loro sistema di potere. Quello che poneva era, innanzi tutto, un problema democratico. La causa della degenerazione, per lui, era la mancanza di ricambio, il blocco del sistema, il veto (di origine internazionale) all’accesso dei comunisti al governo.
«Le cause politiche che hanno provocato questo sfascio morale: me ne dica una», lo incalza Scalfari. «Le dico quella che, secondo me, è la causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi», risponde seccamente il segretario del Pci. In ogni caso, quell’intervistan avrebbe suscitato molti dubbi anche nel partito, e persino tra i dirigenti più vicini a Berlinguer. «Le cose sono dette in modo irritante – annotava in quei giorni nel suo diario Alessandro Natta – gli altri sono ladri, noi non abbiamo voluto diventarlo!
C’è una verità sostanziale,ma il tono è moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri». E ancora: «Il rischio che la critica delle pratiche in atto possa divenire critica della funzione dei partiti c’è, che la condanna appaia generale e sommaria, che il metro di giudizio risulti quello morale e non quello politico… che la contrapposizione tra gli altri e noi diventi così profonda danon lasciare margine a nessuna politica, da isolarci, da alimentare una intransigenza morale, una denuncia radicale ma sterile». Difficile negare, comunque la si pensi nel merito, che molto di queste previsioni si sarebbe rivelato azzeccato.
Anche oggi. D’altra parte, la discussione sulla figura di Berlinguer, sulla necessità di riscoprirlo o invece di «dimenticarlo», per usare l’urticante espressione adottata da Miriam Mafai in un suo saggio (Dimenticare Berlinguer, Donzelli), sarebbe rimasta sempre legata a quella intervista e alle relative polemiche. Probabilmente anche più del giusto, per un leader politico che per formazione, volontà e prestigio fu innanzi tutto un leader internazionale, le cui prese di posizione eterodosse all’interno del movimento comunista finivano
sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Un leader impegnato prima di ogni altra cosa nell’impossibile impresa di favorire un’evoluzione democratica del socialismo reale. Di qui il tentativo fallito dell’eurocomunismo, l’impegno nella distensione, la costante oscillazione tra strappo e rivendicazione del proprio legame internazionale. Un leader che proprio per questo sarebbe stato sempre ricordato come un punto di riferimento essenziale, da tutti coloro che quel sistema volevano cambiarlo, a cominciare
da Mikhail Gorbaciov.

L’Unità 29.07.11