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"Donne, scelta miope tagliare il welfare", Maria Cecilia Guerra

Lo sviluppo a cui tendere non deve guardare solo alla crescita del Pil, ma al più generale benessere delle persone, uomini e donne, e alla sua distribuzione. In quest’ottica sono tanti i motivi per i quali lo sviluppo ha bisogno di investimenti in tutti i campi del welfare. Il welfare può fornire strumenti di protezione, come gli ammortizzatori sociali, che permettano e accompagnino un uso più flessibile, e potenzialmente più produttivo, del lavoro, e rendano socialmente, oltre che individualmente, meno drammatica l’esclusione, temporanea, dal mondo produttivo.
L’investimento in istruzione, a tutti i livelli, non dà solo vantaggio a chi la riceve, ma si riflette sulla collettività, favorendo l’innovazione e creando un contesto sociale più civile e progredito.
E ancor di più, è proprio nell’ambito dei servizi sociali e del welfare in generale che si possono trovare parte di quelle opportunità di riorientamento dell’offerta produttiva che la crisi economica ha reso
necessarie. Le tendenze demografiche, che riguardano sia l’invecchiamento della popolazione sia i processi migratori, la spinta al miglioramento della qualità della forza lavoro e la necessità/opportunità di una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro stanno infatti modificando significativamente la
composizione della domanda delle famiglie. Essa sarà sempre più rivolta a servizi di cura, sanità, istruzione, social housing. Si tratta di domanda, quindi di mercati, su cui è importante investire. Tagliare le spese di welfare è una scelta miope. Non significa “risparmiare”,
significa solo fare riemergere come costo privato un costo che ora è sostenuto dalla collettività nel suo complesso.
Ma la risposta privata non sempre è più efficiente (si pensi al caso della sanità negli Stati Uniti), non tiene conto delle ricadute collettive dell’investimento individuale, rischiando quindi di essere sottodimensionata, e sicuramente non è equa, in quanta soddisfa in modo dignitoso solo i bisogni di chi può permetterselo, mettendo a
rischio la coesione sociale.
Finalizzare parte della crescita allo sviluppo dei settori di welfare in cui è alta la domanda, e mantenerne la funzione di regia e la responsabilità ultima in mano pubblica, non significa affatto escludere la produzione privata. Al contrario, in questi settori le imprese possono trovare occasioni importanti di progresso tecnico e
organizzativo in cui investire con profitto. Investire nei servizi alla persona, in cui è alta l’intensità di manodopera, significa inoltre creare
occupazione. Un processo che deve essere accompagnato dalla formazione di figure professionali adeguate.
E’ importante essere consapevoli che il lavoro domestico e la cura dei
bambini e degli anziani sono attività essenziali per la sostenibilità dei processi di vita e di lavoro di donne e uomini e per il loro benessere. Di tutto ciò si sono tradizionalmente occupate le donne, che ancora
svolgono in Italia, secondo i dati dell’Istat, il 72% di questo lavoro non pagato. Investire nel welfare significa, dunque, anche investire in politiche di conciliazione fra lavoro di cura e lavoro di mercato, che responsabilizzino e coinvolgano pure i maschi. Ciò serve a evitare che il lavoro di cura continui ad essere di ostacolo all’inserimento sul mercato del lavoro e alla realizzazione del proprio progetto di vita per le donne, oltre che a incidere fortemente sulle scelte di procreazione e, quindi, sulla felicità che ne deriva per maschi e femmine.
Tutti temi cruciali per uno “sviluppo umano”.

L’Unità 31.07.11

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