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"Un'economia che produce poca innovazione", di Emanuele Felice e Michelangelo Vasta

Nella letteratura economica esiste oggi un ampio consenso sulla stretta relazione tra i livelli di istruzione di un paese e la sua attitudine verso l’innovazione da un lato, e la capacità di crescere dall’altro. Anche la prospettiva di lungo periodo offre numerose conferme: lo straordinario successo della Germania sul finire dell’Ottocento, all’epoca della Seconda rivoluzione industriale, rispetto all’allora declinante Inghilterra; o più recentemente, l’affermazione dei paesi asiatici che contrasta con la stagnazione dell’Africa. El’Italia?Da quando esiste come stato unitario, il nostro Paese non ha mai brillato in quanto a livelli di istruzione. Nel 1861, al momento dell’unificazione, oltre tre quarti della popolazione era analfabeta: nel 1911 il tasso di analfabetismo era ancora del 40%, livello incommensurabilmente più elevato rispetto ai principali paesi europei. Allo stesso tempo, all’interno delle università prevalevano gli studi umanistici, mentre le scuole tecniche rimanevano relativamente poche. Le classi dirigenti preferivano formarsi nella cultura giuridica e nell’ambito delle professioni, non di rado garantite nei redditi da privilegi corporativi; nella nascente industria, la scarsa domanda di ingegneri era soddisfatta, al più, dai pochi politecnici del Nord. Anche l’Italia di oggi investe molto poco nel capitale umano. Soltanto il 13% degli italiani fra i 25 e i 64 anni è laureato, la metà della media Ocse. La percentuale di iscritti alle facoltà scientifiche è circa un quinto del totale, meno che nelle facoltà umanistiche (23%), o in giurisprudenza e scienze politiche (25%). Questa condizione si riflette nella scarsa attitudine a innovare: la spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S) si mantiene intorno all’1% del Pil, meno della metà della media dei paesi avanzati, e l’Italia è agli ultimi posti in Europa come numero di brevetti realizzati. Nel secolo scorso, l’Italia è diventata ricca perché è riuscita a importare e riutilizzare la tecnologia prodotta altrove, dai paesi europei prima e poi soprattutto dagli Stati Uniti. Nonostante qualche lodevole eccezione, con il tempo la specializzazione di lungo periodo del nostro sistema produttivo si è saldamente imposta: oggi la nostra industria è concentrata in settori tradizionali a basso contenuto innovativo (tessile, abbigliamento: il cosiddetto made in Italy), un dato alquanto anomalo per un paese avanzato. Un sistema produttivo di questo tipo genera a sua volta poco “mercato” per l’istruzione, ancor meno per le competenze di più alto livello. Se si accetta una visione statica dell’economia, le scarse spese nell’istruzione e nella ricerca possono apparire addirittura una risposta razionale alle condizioni di contesto. Perfino i tagli all’istruzione avrebbero una loro motivazione economica: ladomandadi capitale umano per un paese orientato sui settori tradizionali e con una ridotta dotazione tecnologica è necessariamente limitata. A che serve sfornare tanti laureati se poi non trovano lavoro? L’emigrazione di tanti nostri cervelli all’estero troverebbe così una giustificazione quasi fatalistica, in un dato strutturale della nostra economia e con essa del nostro sistema di istruzione. Ma forse le cose non stanno proprio così. Alcuni economisti, ad esempio Daron Acemoglu, hanno infatti dimostrato che non bisogna semplicemente rispondere alla domanda di competenze che un sistema esprime: in una visione dinamica dell’economia, l’elevato livello di capitale umano è necessario per introdurre e utilizzare nuove tecnologie, cioè per migliorare la propria specializzazione promuovendo la crescita economica. Per un paese come l’Italia, risulta quindi vitale aumentare l’offerta di competenze indipendentemente dalla domanda. La nuova specializzazione verso i settori più avanzati (oggi la telematica, le biotecnologie, l’aerospaziale) aumenta la domanda di competenze e innesca un circolo virtuoso. È quel che accade ad esempio in Germania, la locomotiva d’Europa, le cui spese in R&S in percentuale sul Pil sono quasi il triplo di quelle dell’Italia. Il nostro paese appare invece prigioniero di un circolo vizioso. Il suo declino è accentuato dal fatto che le condizioni di contesto che in passato l’hanno favorito oggi non sussistono più. In primis, l’avvento dell’euro, che pure costituisce una garanzia per la tenuta del paese, ci impedisce di giocare sulla svalutazione per rendere più competitive le nostre esportazioni a basso contenuto innovativo. Ma a ben vedere, è quella della Germania la ricetta per diventare o rimanere un paese prospero: innovare, investendo nell’istruzione e nella ricerca, specializzandosi così nelle produzioni più vicine alla frontiera tecnologica. La strada per tornare a essere un paese povero è invece quella disgraziatamente imboccata dall’Italia. Piuttosto che innovare, migliorando i prodotti e i processi produttivi, cercare di competere riducendo il “costo” del lavoro: la produttività migliora ugualmente, ma chissà perché il nostro tenore di vita peggiora.

L’Unità 31.07.11