attualità, politica italiana

"Dalla scuola ai debiti, l'America fa i conti con il suo declino", di Maurizio Molinari

Gli storici di Harvard: gli Usa come l’antica Roma, i giorni del dominio sono finiti

Il «Launch Math Achievement Center» promette di trasformarli in «scienziati geniali» prima ancora della fine della scuola dell’obbligo. Se padri e madri ritengono che una palestra colorata disseminata di giochi tipo «Piccolo Einstein» possa garantire un futuro migliore ai figli è perché la sfiducia nel sistema dell’istruzione è uno degli aspetti concreti della percezione pubblica del declino nazionale, destinata ad essere accresciuta dal primo downgrading finanziario della Storia. Gli adolescenti a stelle e strisce sono i 17˚ del mondo per conoscenze scientifiche e i 25˚ in matematica in una statistica dell’Ocse che è diventata patrimonio di milioni di famiglie da quando il presidente Barack Obama l’ha citata nel discorso al Congresso sullo Stato dell’Unione per illustrare l’avvenuto sorpasso dell’America da parte degli asiatici, cinesi e coreani in testa, che invece eccellono in queste materie. La sovrapposizione fra scuole carenti, debito in crescita e campagne militari che non accennano a finire – non solo in Afghanistan ma anche in Iraq, dove il previsto ritiro totale è tornato in discussione – spingono lo storico di Harvard Niall Ferugos a sostenere nel suo «Civilization: The West and the Rest» che i giorni del dominio della civilizzazione Occidentale, basata sulla forza dell’America, sono terminati nel segno dell’affermazione del «Resto» del mondo in un cambio della guardia alla guida del Pianeta che Fareed Zakaria – uno dei columnist più in sintonia con la Casa Bianca – descrive sul magazine “Time” come “il riordino del ponte del Titanic dopo il naufragio”.

L’incubo di seguire l’Antica Roma nella sorte dell’inesorabile declino imperiale è d’altra parte connaturato all’identità americana, come spiega il politologo conservatore Rufus Fears, ricordando che «i padri fondatori che scrissero la Costituzione ispirandosi alla Repubblica Romana sapevano che istituzioni e libertà erano legate alla vitalità del patriottismo» che negli ultimi tempi sembra essere anch’esso in vistoso calo. Per i pensatori conservatori come Norman Podhoretz la responsabilità è di Obama che si inchina davanti a sovrani e imperatori stranieri, gira il mondo scusandosi per il potere americano e teorizza la “guida dal sedile posteriore” facendo comprendere di essere il primo ad avere accettato il ridimensionamento economico e militare degli Usa. Per gli opinionisti liberal come E. J. Dionne invece la colpa è dei repubblicani che con la riconta di Florida 2000 usurparono l’elezione di George W. Bush indebolendo le istituzioni, nei seguenti otto anni dilapidarono il surplus ereditato da Bill Clinton ed ora si oppongono all’aumento delle tasse per i ricchi, che avrebbe consentito una maggiore riduzione del deficit e scongiurato il downgrading finanziario. Per comprendere quanto il dibattito sul declino entra nelle viscere della nazione bisogna salire sul monti della Pennsylvania dove, attorno al lago Teedyuskung, i resort costruiti negli anni Sessanta per ospitare il boom della classe media bianca sono preda di famiglie di immigrati asiatici in un cambio di popolazione a cui viene data una spiegazione differente. Per i proprietari dei resort “i bianchi sono talmente impoveriti da non potersi permettere neanche le vacanze” mentre gli ultimi wasp anglosassoni e protestanti in circolazione la pensano come Kevin, un ex ufficiale di polizia di Long Island, secondo cui è “una fase transitoria di difficoltà per tutti ma i soldi presto torneranno”. Il duello, di mente e anche di stomaco, è sul paragone fra l’America di Obama con quella di Herbert Hoover e di Jimmy Carter. Nel 1932 il repubblicano Hoover lasciò una nazione devastata dalla crisi al democratico Franklin Delano Roosevelt che la risollevò con il New Deal e nel 1980 il democratico Jimmy Carter lasciò l’America con le auto in fila davanti ai benzinai al repubblicano Ronald Reagan che la rilanciò con le liberalizzazioni. “Il problema sta nel fatto – replica Dick Durbin, senatore democratico dell’Illinois – che entrambe quelle ricette economiche non funzionano più perché il liberismo di Reagan ha portato al crack del 2008 e il modello keynesiano di Roosevelt non è più possibile con i pesanti tagli alla spesa pubblica a cui siamo obbligati”. L’interrogativo dunque è se l’America saprà trovare dentro di sè una nuova ricetta per la produzione della ricchezza nel XXI secolo.

A giudicare dalla classifica di Forbes le uniche due aziende yankee capaci di primeggiare nella globalizzazione – essendo le uniche incluse nelle prime 10 per dimensioni – sono Walmart e ExxonMobil ma grande distribuzione ed energia sono stati motori di crescita del Novecento le cui posizioni di forza appaiono residui del passato. Duerisposte più attuali vengono dagli opposti estremi dell’America di Obama. Eric Schmidt, ex ceo di Google e consigliere di Barack, crede nella formula del rinascimento digitale della Silicon Valley: qualità nell’istruzione, fondi all’innovazione, energie rinnovabili e regole per l’e-commerce. Paul Ryan, 41enne deputato repubblicano del Wisconsin, punta invece sulla drastica riduzione in tempo rapido dei benefici collettivi di Sanità e Previdenza per abbattere il debito e sprigionare la produttività di singoli e aziende. Sarà il confronto fra queste opposte visioni su come evitare il declino che terrà banco alle presidenziali del 2012.

da www.lastampa.it

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“E il dollaro non è più il padrone del mondo”, di Vittorio Zucconi

IL “D-Day” alla rovescia è dunque arrivato. Non il default, la bancarotta, l´apocalisse, troppo temuta e troppo annunciata, ma il più sottile e velenoso downgrading, la retrocessione del credito di un´America che non aveva mai conosciuto questa umiliazione politica. Dal 1837, quando lo battezzò così lo scrittore Washington Irving, la sua moneta era l´Almighty Dollar, il dollaro onnipotente, almighty proprio come l´Iddio Onnipotente. Non lo è più.

Barack Obama ha subito qualcosa che nessuno aveva prima mai visto: i “barbari” delle agenzie di rating sfondare i lontani confini del credito
Vacilla il mito della valuta “onnipotente” ma non è del biglietto verde che qualcuno comincia a non fidarsi più. Piuttosto, della classe politica che lo governa e lo emette.

Sempreverde, immutabile se non per piccole modifiche grafiche, mai fuori corso, il dollaro e dunque il credito assoluto e virginale del quale il governo emittente godeva, è quello che nessuna portaerei, missile, sottomarino, grattacielo hanno mai rappresentato: la bandiera del “Secolo degli Stati Uniti”. Per almeno due generazioni, dal 1944, tutto ciò che un viaggiatore doveva portare in tasca erano dollari, in contanti o nei mitici traveler´s cheque, sapendo di essere onorato e accolto ovunque con ingordigia ed entusiasmo. Dai vicoli dei suk arabi ai villaggi dell´Unione Sovietica, dagli sportelli di cambio come dai cambiavalute clandestini disposti a rischiare la galera o la vita pur di ottenerli, il “credito”, che è sinonimo di “fede”, di “credere”, del dollaro era assoluto.
E ora, in un´altra delle estati maledette che puntualmente si abbattono su un mondo che soltanto in Italia si crede in ferie dalla storia, l´onnipotente viene fatto scendere dal suo trono sotto il vacillante pontificato del primo papa nero della chiesa laica americana, Barack Obama. E´ una piccola retrocessione, un mezzo punto, dalle conseguenza reali probabilmente modeste, decisa soltanto da Standard & Poor´s una delle varie agenzie che danno i voti alle monete e al debito delle nazioni. Ma un Dio che dopo secoli di devozione diventa un po´ meno Dio, può ancora essere l´Almighty? La vestale delle valute, l´America, ha perduto la propria verginità.
Nella storia dell´ascesa e del declino degli imperi, il tramonto delle monete che essi esprimono, dai sesterzi ai talleri, dai franchi alla sterlina britannica, sono sempre il sintomo che un´epoca sta finendo. E sono quasi sempre le guerre, e la degenerazione delle classi dirigenti politiche o delle corti imperiali, le prime cause di questi crepuscoli. E´ stato proprio lo spettacolo indecoroso offerto dal potere americano, la Casa Bianca nella propria titubante e compromissoria latitanza, poi il Parlamento, ostaggio di una minoranza di legionari ribelli dell´ideologia anti statale (e anti obamiana) a indurre la Standard & Poor´s all´eresia del downgrading, della retrocessione del dio dollaro. Non è del green back, del biglietto verde che qualcuno comincia a non fidarsi più. E´ della classe politica che lo governa e lo emette, come sta accadendo in Europa, senza distinzioni di colore ideologico, che i poliziotti dei voti (spesso per primi sospetti e corrotti) non si fidano più.
Ma sullo sfondo dei grandi drammi c´è sempre la guerra, il motore primo. Furono le guerre a fare la potenza del dollaro nel XX secolo, culminata nel trionfo della Seconda Guerra Mondiale che spazzò via la sterlina dell´Impero Britannico e lo impose come perno dell´intero sistema monetario mondiale con il diktat di Bretton Woods e l´ossigeno del Piano Marshall all´Europa, e all´Italia, boccheggianti. E sono state la guerra nel Sud Est Asiatico o oggi in Iraq e in Afghanistan a picconarlo e sbalzarlo da trono. Fu proprio quarant´anni esatti or sono, nell´agosto del 1971 mentre infuriava la guerra in Vietnam e in Cambogia, che Richard Nixon si vide costretto a dichiarare la fine del “Novus Ordo Seclorum”, come proclama la scritta massonicamente ispirata sulle banconote Usa, il collasso del nuovo ordine finanziario globale durato in realtà meno di 30 anni, dichiarando il dollaro non più convertibile automaticamente in oro. Ed è in questo agosto del 2011, nel decimo anniversario della distruzione delle Due Torri, il massimo monumento alla superbia babilonese della finanza americana, che Obama si vede degradare il credito, una manifestazione non cruenta, ma simbolicamente devastante di un crollo. Per la nazione e per lui.
La irresponsabile pantomima della cifre e delle «migliaia di miliardi» cancellati o reinseriti nella “legge anti default” inscenata da un Parlamento di inetti, di deboli, di fanatici che hanno dimenticato la strada maestra delle fortune imperiali americane – il pragmatismo – ha prodotto il totale disprezzo dell´opinione pubblica per i propri eletti, con un indice di gradimento del 6% nei sondaggi. Praticamente quasi zero, tenendo conto del margine di errore statistico. E ha fatto temere agli analisti che questo equipaggio ai comandi non abbia più la fiducia popolare e non sia semplicemente in grado di governare la nave in gran tempesta.
Le proteste dell´Amministrazione Obama, che ha subito rimproverato alla S&P errori contabili nel calcolo delle passività, suonano patetiche come le lagnanze dei politicanti quando lamentano di essere stati citati «fuori contesto». Nei fatti, la sola e potente giustificazione di Obama il timido, che ormai molti paragonano all´onesto, sfortunato e infine disfatto Jimmy Carter costretto all´onta delle file inaudite per il pieno di benzina e all´atroce sberleffo di Khomeini, sarebbe la disastrose eredità ricevuta dal predecessore. La voragine di debiti si aprì con Bush l´Incosciente, che, dopo avere scassato i bilanci federali dissipando l´attivo che suo padre George il Vecchio, aumentando le tasse, e poi Clinton gli avevano lasciato aggiunse i costi di una guerra che, aveva promesso, «si sarebbe pagata da sola». E sta costando invece migliaia di miliardi, senza luce alla fine del tunnel.
Ma negli Stati Uniti il miserando giochetto dello scarica barile non funziona. It happened on your watch si dice, qui, è accaduto mentre eri di guardia tu e tu ne pagherai le conseguenze. Nixon, incolpevole, passò alla storia come il distruttore del sistema tolemaico di cambi fissi, imposto dagli americani nella Bretton Woods del 1944, che cominciò a demolire la posizione del dollaro come moneta di riserva mondiale, immenso vantaggio per gli Usa. Carter sarà per sempre colui che dimostrò la vulnerabilità e l´impotenza della superpotenza di fronte alle sfide del terrorismo religioso nazional-fondamentalista. Bush il Giovane credette a caro prezzo di vite e di tesoro nell´allucinazione del “Nuovo Secolo Americano” caro ai neo conservatori, fondato sulla proiezione globale della forza militare, naturalmente «a fin di bene». Obama non sarà il Romolo Augustolo del Nuovo Impero d´Occidente, ma ha visto qualcosa che nessuno aveva prima mai visto: i “barbari” delle agenzie di rating sfondare i lontani confini del credito.
Ancora non si capisce a favore di chi sia avvenuto questo sfondamento del regno del dollaro, tra l´anemia perniciosa dell´euro e la improponibilità di una sostituzione con la valuta cinese, il Renminbi, grottescamente e artificialmente sottovalutato dai dirigenti del partito comunista e non trattabile sui mercati. Ma ora almeno si capisce meglio perché la minoranza dei fanatici del Tea Party, gli ultrà della destra, abbiano esitato a rivendicare la vittoria politica sui moderati del proprio partito repubblicano e sull´odiato “usurpatore” Barack Obama. Essi sapevano, e ora vedono, che per ferire il sovrano, avrebbero colpito l´America. Un regicidio di ideologi che comincia a somigliare al suicidio di una nazione. Il tramonto degli imperi parte sempre dal loro interno.

da La Repubblica