cultura, politica italiana

Nella bufera la "Rai ci lascia al buio. Ma è ancora un servizio pubblico?", di Ernesto Galli della Loggia

Ma Paolo Garimberti e Lorenza Lei sono italiani? Abitano in Italia il presidente e il direttore generale della Rai? Vivono tra noi, condividono le nostre preoccupazioni e i nostri discorsi? Se la risposta è sì, come suppongo, allora è davvero inspiegabile come possano consentire che in questi giorni la stessa Rai, al di là della più scheletrica informazione sui fatti, lasci il Paese al buio, senza cercare di spiegargli a fondo quanto sta capitando.
Ma com’è possibile? L’Italia è alle prese con i momenti più difficili che le sia capitato di attraversare da vent’anni a questa parte, un’intera epoca storica sta probabilmente finendo sotto i nostri occhi mentre si apre un avvenire di allarmante incertezza, e che cosa fa l’Ente radiotelevisivo pubblico per consentire agli italiani di farsi un’opinione, di esprimere un giudizio? In pratica nulla. Di fronte al terremoto che si svolge sotto i nostri occhi a nessuno viene in mente di modificare i desolanti palinsesti estivi, di organizzare un’informazione speciale degna del nome per ampiezza e analisi, qualche trasmissione di approfondimento, una discussione vera. Nulla, solo i telegiornali e basta: al massimo la piccola appendice del Tg3 ad ore notturne. Non solo, ma anche quei pochissimi programmi diciamo così giornalistici che sopravvivono alla ridicola smobilitazione estiva di stile scolastico-vacanziero-romanesco regolarmente vigente a viale Mazzini, anche quei programmi continuano imperturbabili ad ispirarsi all’abituale reverenza per l’ufficialità. Esempio, la trasmissione «Radio anch’io» di venerdì mattina, con un po’ di capataz del potere nazionale allineati ai microfoni di Radio1 (salvo uno sparuto paio di «esperti» , tanto per salvare la faccia, ma relegati rigorosamente nel ruolo di comprimari), e intenti esclusivamente a fare politica illustrando ciascuno la propria verbosissima ricetta per uscire dalla crisi. Ma nessuno, naturalmente, che si curasse di spiegare con un minimo di chiarezza qualcuna delle molte tecnicalità in questione; mentre, altrettanto ovviamente, il conduttore si asteneva rispettosamente dal fare domande scomode e tanto meno dal sollevare qualche obbiezione agli augusti ospiti. Di che meravigliarsi del resto? Quando alla Rai si pensa di approfondire questo o quel tema, non si pensa di chiamare a discutere chi è competente professionalmente di esso o magari delle personalità della vita pubblica intellettualmente autonome. No, si chiamano sempre e soltanto i rappresentanti della politica o dei sindacati, dando vita ogni volta a ridicoli parlamenti lillipuziani, perlopiù urlanti, dove l’interesse di tutti i presenti è unicamente quello di far vedere che ci sono e sono capaci di alzare la voce. L’Italia attraversa una crisi molto più profonda di quello che dica la sua situazione economica. È un Paese, per l’appunto, ormai virtualmente privo anche di una rete radiofonica e televisiva che sia realmente investita (e che si senta investita) della funzione di un servizio pubblico nazionale: che cioè rappresenti un tessuto connettivo importante al servizio della collettività. Per avere ancora una pallida idea di che cosa sto parlando si è costretti a rifugiarsi nel passato: nello struggente bianco e nero dei programmi della Rai di un tempo, oggi ancora visibili nella riserva indiana di Raistoria. Ma quella Rai non esiste più. È stata sbranata e divorata dai partiti, complice il meccanismo micidiale dell’Auditel, imposto dai pubblicitari e dalle televisioni commerciali per fare del solo indice di ascolto il criterio sovrano di ciò che deve o non deve andare in onda. Come sempre, dunque, avremo quel che ci siamo meritato. L’imminenza del Giudizio Universale, si può essere sicuri, o più modestamente lo spread a 800 punti, saranno oggetto di apposito dibattito tra Cgil, Cisl e Uil, naturalmente verso mezzanotte e un quarto, e intervallato da una réclame di tonno in scatola e una di carta igienica.

da il Corriere della Sera