economia, politica italiana

Quando Tremonti irrideva i liberisti e assicurava: «Mai più guerre sull’articolo 18», di Francesco Cundari

Il ministro dell’Economia annuncia «la madre di tutte le liberalizzazioni» dopo avere navigato con destrezza tra Marx e Borghezio, pro e no-global rivendicando coerenza e preveggenza delle crisi. Che gli sta mancando…

ANTI-STATALISMO
I due blocchi: «C’è un blocco statalista formato da Stato, grande industria e sindacati, e c’è un blocco non statalista, formato da tutto il resto. Il primo, con ovvie eccezioni, si riconosce nell’Ulivo, l’altro nel Polo e nella Lega».
Privatizzazioni: «Dico solo che dopo l’ottima fase di Ciampi le privatizzazioni si sono fermate. Noi le rilanceremo. Non sono, le privatizzazioni, né di sinistra né di destra. Servono a fare soldi per abbattere il debito pubblico». (Intervista all’Espresso, 16 maggio 2001)
L’Italia come l’Irlanda: «Il Vecchio Continente si gioca tutto se riesce a liberarsi all’ossificazione politica. In questo, l’Italia è un’avanguardia, possiamo dire di avere intercettato il vento del nuovo mondo… Dall’assetto di controllo delle banche ai fondi
pensione, dal rientro dei capitali alla detassazione degli utili… Il nostro scenario è proprio quello di fare in grande ciò che ha fatto l’Irlanda». (Intervista al Sole 24 Ore,
27 dicembre 2001)

ANTI-MERCATISMO
Dazi e quote: «I governi non fanno e non lanciano l’economia, non ci riuscivano eppure quelli comunisti… Devono pensare a opere pubbliche, energia, tenuta dei conti pubblici e protezione del lavoro. Ovvero devono chiedere più che possono dazi E quote». (Videochat su Corriere.it 8 marzo 2006)
Profeta in patria: «Lei avrebbe fiducia in una classe politica che non vede il futuro, evede il presente ancora come proiezione di un passato che si sta sbriciolando? Io No». (Intervista al Messaggero, 18 marzo 2008)
Valori eterni: «Il nuovo centrodestra deve recuperare molte antiche parole come autorità, responsabilità e identità. Non serve ingegneria sociale per introdurre valori nuovi, dobbiamo difendere quelli eterni». (Intervista al Foglio, 17 luglio 2007)

Dopo averlo ascoltato annunciare (ancora una volta) la riforma dell’articolo 41 della Costituzione, presentata addirittura come la «madre di tutte le liberalizzazioni» nella solenne conferenza stampa di venerdì, molti ammiratori del ministro dell’Economia saranno rimasti delusi.
Perlomeno quelli tra di loro che ne apprezzavano maggiormente il repertorio di sinistra, tutto citazioni di Karl Marx, elogi del posto fisso, condanna della globalizzazione e dello strapotere della finanza. Appassionati lettori di pamphlet come Rischi fatali (best-seller del 2005 che sin dal sottotitolo si scagliava contro il «mercatismo suicida»), o come il più recente La paura e la speranza. Scrupolosi esegeti di tutte le sue interviste-manifesto sulla crisi finanziaria e gli squilibri globali. Ma forse, dopo averlo sentito annunciare pure la riforma del mercato del lavoro, un po’ delusi saranno rimasti anche tutti quei moderati che contavano su di lui per un approccio equilibrato. Echemagar ne avevano apprezzato l’intervista a Repubblica del 21 aprile 2008, in cui scandiva: «Per essere chiari, nessuno di noi è ansioso di rifare battaglie epocali come quella sull’articolo 18».
In compenso, con la sua nuova svolta liberista, il ministro avrà certo riconquistato alcuni dei suoi primi estimatori. Divoratori del suo saggio del 1997, Lo stato criminogeno (Laterza), incentrato sulla filosofia dello Stato minimo. «L’estensione dello Stato – scriveva il Tremonti antistatalista di allora – causa la proliferazione delle leggi; la proliferazione delle leggi causa la moltiplicazione degli illeciti, reali o potenziali; la moltiplicazione degli illeciti causa, infine, prima la diffusione e poi la banalizzazione dei crimini». Certo sembrano lontanissimi i tempi in cui Michele Santoro lasciava che fosse proprio Tremonti ad aprire Anno Zero con un interminabile monologo sulla crisi globale, con tanto di lavagnetta (non sarà stata la scrivania per il contratto con gli italiani che Bruno Vespa offrì al Cavaliere, ma faceva comunque il suo effetto). Eppure era solo il 10 marzo scorso, e persino il titolo della puntata era una carezza promozionale al ministro-scrittore: «Rischi fatali». Proprio come il suo libro.
D’altra parte, questa sua capacità di spiazzare costantemente alleati e avversari, spaziando con disinvoltura da Karl Marx a Mario Borghezio, com’era inevitabile, non gli ha procurato solo elogi e riconoscimenti trasversali,ma anche trasversali inimicizie. E così, se da un lato Santoro non ha esitato a stendergli più volte un tappeto rosso, chiamando a discutere le sue tesi no-global Fausto Bertinotti, Ferruccio de Bortoli ed Eugenio Scalfari, dall’altro lato, in tutte le inchieste di Report che in qualche modo lo toccavano, non mancavano mai interviste feroci agli ultraliberisti dell’Istituto Bruno Leoni o del collettivo Noise From Amerika, che al ministro ha dedicato anche un libro (Tremonti, istruzioni per il disuso, edizioni Ancora del Mediterraneo).
La prima conclusione che si potrebbe trarne è che nulla in politica è importante quanto sapere adeguare il proprio messaggio ai tempi e agli interlocutori che si hanno di fronte. Di sicuro è quello che deve aver pensato Guglielmo Epifani, quando gli chiesero di commentare l’elogio tremontiano del posto fisso come base della stabilità sociale, pronunciato a un convegno del 19 ottobre del 2009. «La variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutabilità per alcuni sono un valore in sé, per me onestamente no», aveva detto il ministro. E così aveva proseguito: «C’è stata una mutazione quantitativa e anche qualitativa del posto di lavoro, da quello fisso a quello mobile. Per me l’obiettivo fondamentale è la stabilità del lavoro, che è base di stabilità sociale».
Alla fatale domanda dei cronisti, l’allora segretario della Cgil replicò dunque senza scomporsi: «Chiedete a Confindustria». Il commento di Confindustria, naturalmente, non fu positivo. «Riteniamo che la cultura del posto fisso sia un ritorno al passato non possibile, che peraltro in questo Paese ha creato problemi», disse Emma Mercegaglia. Ma non si può avere tutto.
Del resto, il Tremonti del 2009 non era più quello degli inizi del decennio. Quello che proprio al Sole 24 Ore spiegava che «il Vecchio Continente si gioca tutto se riesce a liberarsi dall’ossificazione politica». E che assicurava: «In questo, l’Italia è un’avanguardia, possiamo dire di avere intercettato il vento delnuovo mondo.In sei mesi abbiamo avviato un grande processo di rigenerazione della struttura economica del Paese. Dall’assetto di controllo delle banche ai fondi pensione, dal rientro dei capitali alla detassazione degli utili, fino alla fortissima semplificazione degli adempimenti contabili». Quindi, soddisfatto, il gran finale: «Se non si era capito finora, adesso si comincia a capire che il nostro scenario è proprio quello di fare in grande ciò che ha fatto l’Irlanda». Ma chi avrebbe potuto immaginare, nel 2001, che la «Tigre celtica» da tanti indicata a esempio, alla fine del decennio sarebbe diventata un modello negativo? È chiaro, e sarebbe ingeneroso negarlo, che un uomo politico e un intellettuale che giochi un ruolo di primo piano per tanto tempo, attraversando tante fasi ed eventi diversi, è troppo facilmente esposto all’accusa di incoerenza, al facile gioco delle citazioni contrapposte. Citazioni che è agevole scegliere come fior da fiore, tra quasi venti anni di interviste, saggi, interventi pubblici che sempre, inevitabilmente, pagano anche qualcosa a legittime esigenze tattiche, polemiche, occasionali. È anche vero, d’altronde, che pochi leader politici si prestano così bene a questo gioco, forse anche per una certa naturale tendenza del ministro al giudizio definitivo, alla considerazione solenne, alla frase storica. Quella che il primo ottobre scorso gli faceva dire, per esempio, a proposito della crisi irlandese: «Lo avevo previsto.Enon sono Nostradamus».
Va anche detto, tuttavia, che proprio Tremonti non si è mai mostrato troppo tenero con osservatori e analisti colti in fallo. In particolare con liberisti come Francesco Giavazzi, al quale ha continuato a ricordare per anni, in ogni polemica, l’entusiasmo con cui aveva salutato il fallimento di Lehman Brothers come «una buona giornata per il capitalismo». Non a caso, sulla crisi che proprio di lì sarebbe scaturita, e che Tremonti si picca di essere stato tra i pochi a prevedere, avrebbe dato i giudizi più sferzanti. «Tra tutti gli economisti che scrivono e pontificano – avrebbe detto al Messaggero del 18 marzo 2008 – ce n’è qualcuno che ha saputo prevedere, almeno l’anno scorso, quel che sarebbe successo? Nessuno. Forse Bernanke prima di decidere l’intervento per Bear Stearns avrebbe dovuto dare un colpo di telefono a Monti o a Giavazzi. È la bancarotta intellettuale di un ceto che ha dominato questi anni». Quindi, con parole che si potrebbero anche considerare involontariamente autobiografiche, concludeva: «Lei avrebbe fiducia in una classe politica chenon vede il futuro, e vede il presente ancora come proiezione di un passato che si sta sbriciolando? Io no».

da L’Unità