attualità, economia, politica italiana

«Se l’assistenza diventa un bancomat», di Ruggero Paladini

Sembra che Berlusconi abbia trovato motivo di soddisfazione nel fatto che Obama, Merkel e Sarkozy si siano preoccupati di spingerlo ad anticipare al 2013 l’obiettivo del pareggio di bilancio. Il compito di anticipare di un anno i 23,5 miliardi, in modo che l’effetto complessivo della manovra raggiunga i 48 miliardi, spetta al “suo” ministro dell’Economia, anche se dover parlare con quest’ultimo non deve essere stato particolarmente gratificante. Non va dimenticato, infatti, che la delega di riforma fiscale ed assistenziale era nata per annunziare un taglio delle tasse. Al contrario gli italiani hanno appreso che da essa dovevano uscire tagli per 20 miliardi (di cui quattro in più nel 2012) e ora apprendono che questi tagli saranno anticipati. Quello che ancora è del tutto oscuro è se essi si concentreranno sulla spesa assistenziale oppure sulle “tax expenditures”, cioè su deduzioni e detrazioni in sede Irpef, aliquote ridotte in sede Iva e altre agevolazioni fiscali. Entro settembre 2012 dovrebbe essere varata una riforma dell’assistenza volta a eliminare non meglio definite sovrapposizioni e duplicazioni di prestazioni assistenziali; se ciò non dovesse avvenire, ci penserà la clausola di salvaguardia a tagliare linearmente tutte le agevolazioni fiscali. Ora, che la nostra spesa assistenziale abbia bisogno di una profonda revisione è indubitabile; basti pensare che siamo l’unico paese europeo (insieme alla Grecia, guarda caso) a non avere un sistema di intervento di ultima istanza, cioè una rete di sicurezza che possa intervenire in tutte le situazioni di difficoltà, dalle famiglie numerose ai non autosufficienti o ai disoccupati. Dove siano le sovrapposizioni, tuttavia, lo sa solo Tremonti (e probabilmente neanche lui). Poiché sulla stampa si è fatto riferimento agli assegni al nucleo familiare (Anf), vale la pena di soffermarsi su questo istituto. La “duplicazione” nascerebbe dal fatto che i lavoratori dipendenti che ricevono gli assegni per i figli usufruiscono anche delle detrazioni per gli stessi in sede Irpef. Sarebbe questa quindi una sovrapposizione, tale da giustificare l’eliminazione degli Anf? Va ricordato che: 1) se nel nucleo familiare i redditi diversi da quelli da lavoro dipendente superano il 30%, gli Anf non sono dovuti; 2) gli Anf cessano al compimento del diciottesimo anno di età, mentre le detrazioni non hanno limite; 3) gli Anf sono un trasferimento monetario (dell’Inps) e non sono soggetti al problema dell’incapienza che invece si manifesta nelle detrazioni fiscali; 4) i lavoratori versano dei contributi all’Inps per gli Anf. Si possono razionalizzare i due istituti? Certamente sì, ma non tagliandone uno. Nel Libro Bianco del Ministero dell’Economia e delle Finanze su Irpef e Anf del 2008 è stata presentata la proposta di unificazione delle detrazioni per figli e degli Anf da applicare inizialmente a tutti i minori di tre anni; a regime il costo aggiuntivo era calcolato sui cinque miliardi, da aggiungere quindi, non da tagliare. In realtà la nostra spesa per l’assistenza è già nettamente sottodimensionata rispetto a quella della maggioranza degli altri Paesi europei, per cui tagli per oltre un punto di Pil determinerebbero effetti di quella “macelleria sociale” che Tremonti si è spesso vantato di voler evitare. L’altra frase spesso ripetuta dal ministro è: «Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani». Se, come è probabile, la riforma dell’assistenza si ridurrà a una “stretta” sulle pensioni di invalidità, ma nulla di più, allora scatteranno i tagli lineari sulle “tax expenditures” e le mani nelle tasche degli italiani saranno infilate in profondità, ma non in modo uguale per tutti. Saranno infilate in modo particolare sui lavoratori dipendenti, sui redditieri minori che consumano in maggior misura i beni con aliquote Iva al 4% e al 10%, su chi ha avuto spese sanitarie di maggior importo e così via. L’accelerazione di una manovra di circa tre punti di Pil potrà ottenere l’intervento della Bce per calmare l’attuale frenesia dei mercati finanziari, ma avrà sicuramente un effetto recessivo, con la conseguenza che lo stesso pareggio di bilancio entro il 2013 non verrà realizzato. I problemi di fondo dell’economia italiana rimangono dunque irrisolti.

da L’Unità

******

Caccia a 17 miliardi, nel mirino le pensioni di anzianità, di Mario Sensini
Contratti aziendali estesi, il governo preme. Dubbi del sindacato

Gli esperti si sono già messi a fare i conti, arrivando a una conclusione univoca: anche a essere molto cattivi, dalla spesa per l’assistenza sociale sarà impossibile tirar fuori 17 miliardi di euro, quanti ne servono per anticipare il pareggio di bilancio, entro la fine del 2013. E così si fa strada l’ipotesi di nuovi interventi sulle pensioni per evitare di pescare nel serbatoio delle agevolazioni fiscali, destinato a finanziare la riduzione delle aliquote Irpef, e in qualche modo a bilanciare i tagli. Ufficialmente l’argomento non è all’ordine del giorno, e il governo non ha neanche accennato alle parti sociali nell’incontro di due giorni fa. Prima di tutto, con loro, c’è da affrontare il problema delle norme per estendere “erga omnes”la contrattazione aziendale. Il governo le vuole, la Confindustria le sollecita, ma i sindacati hanno ancora qualche perplessità. Mettere subito sul piatto anche la questione previdenziale sarebbe forse troppo. Resta il fatto che tra i tecnici dell’esecutivo e gli esperti del settore, la discussione sulla previdenza è già avanzata. Il perché è presto detto: dalla riforma dell’assistenza, in soli due anni, si possono tirare fuori al massimo 4 miliardi di euro. È vero che a regime, cioè in un tempo più lungo, potranno essere molti di più. Ma i soldi per arrivare al pareggio di bilancio un anno prima del previsto, nel 2013, servono subito. E dunque si ragiona su almeno tre fronti: l’età di pensione delle donne nel settore privato, le pensioni di reversibilità, e soprattutto quelle di anzianità. Per le donne si tratterebbe di accorciare drasticamente il periodo di avvicinamento ai 65 anni degli uomini, che si concluderà solo nel 2030. Mentre sui 5 milioni di pensioni di reversibilità, che l’Italia concede con generosità senza pari in Europa (38 miliardi l’anno), l’intervento sarebbe più graduale, dovendo far salvi i diritti acquisiti. Il vero problema, come il grosso della spesa e dei possibili risparmi, è nelle pensioni di anzianità. Nel 2010 l’età media effettiva di pensionamento degli uomini è stata di appena 58,5 anni. Nel 2011 salirà a 58,8. Da qui al 2014, a tirar su l’asticella, contribuirà l’aumento progressivo delle “quote”, date dalla somma di contributi ed età anagrafica. Tra tre anni, tuttavia, si potrà ancora andare in pensione a 61 anni (a 62 per gli autonomi). E di questo passo, per arrivare a un pensionamento effettivo a 65 anni ci vorranno almeno trent’anni. Perpetuando ancora a lungo, per giunta, le ingiustizie del “doppio binario”. Chi va in pensione anticipata oggi, ci va con il vecchio sistema “retributivo”, cioè con un assegno pari alla media degli ultimi dieci anni di stipendio. Chi arriverà alla pensione di anzianità fra quindici anni, invece, ci andrà parecchi mesi dopo, e con il sistema “contributivo”, ovvero con una pensione di gran lunga più bassa. C’è dunque anche una ragione di equità, oltreché l’emergenza del momento, che potrebbe spingere il governo a compiere il passo decisivo e finale sul sistema previdenziale. Gli esperti valutano due strade possibili. La più drastica è l’abolizione tout-court delle pensioni di anzianità, lasciando nell’ambito della legge sui lavori usuranti le uniche vie di fuga prima dei 65 anni (che poi saliranno con l’agganciamento alle speranze di vita). C’è chi suggerisce, invece, la strada dei disincentivi: un “x”per cento in meno di pensione per ogni anno che manca al limite della vecchiaia, oppure il ricalcolo dell’assegno solo con il meccanismo contributivo.

da il Corriere della Sera

******

«Pensioni, sanità, condoni e sprechi ecco come in 40 anni ci siamo indebitati», di Carlo Petrini

Il debito vale il 120% del Pil ma all´inizio degli anni 70 era al 50% Poi è arrivata l´era delle spese incontrollate: assunzioni facili, corruzione e sperperi. Anche dopo l´euro gli incassi una tantum e cartolarizzazioni non sono stati utilizzati per riequilibrare il bilancio pubblico e rispettare gli impegni Ue

La vetta dei 2 trilioni è vicina. Siamo, secondo i dati Bankitalia, a quota 1.890 miliardi, e per fine anno si salirà ancora più su. Come ormai ripetono tutti: il 120 per cento del Pil. Un debito il cui costo cresce al crescere degli spread e che, con la solita ruvidezza, Bossi ha paragonato a «carta straccia». Che ci espone all´assalto dei mercati e ci costringe a cure, improvvise, quanto severe e dolorose.
Per Berlusconi, che non dimentica mai di ricordarlo, la colpa è «dei governi che ci hanno preceduto». E´ così? Certo il passato è comunque gravido del presente, ma bisogna vedere come e perché. Fatto sta che nel lontano periodo 1961-1973 il debito-Pil dell´Italia era solo al 50,3 per cento del Pil. A Maastricht mancavano trent´anni. E poi? Poi comincia l´esplosione. Nel periodo 1974-1985 raggiungiamo l´80,5 per cento del Pil, nel 1990 siamo al 94,7 per cento, nel 1995 il picco storico è del 121,5 per cento. Toccò a Romano Prodi, affiancato da Ciampi, per raggiungere l´obiettivo dell´euro, stringere la cinghia e riportare il livello al 109 per cento nel 2000.
A dare la caccia alle responsabilità si rischia di non uscirne se si guarda alla storia. Senz´altro l´invecchiamento demografico ha gonfiato a partire dai primi Anni Novanta le pensioni (incidevano per un quarto nel 1980 e ora hanno superato il 32 per cento). E furono necessari i decisi interventi di riforma di Amato-Dini-Prodi. La sanità è stata inarrestabile: è passata, nello stesso periodo, dal 13,6% al 15,3%. A guardare le tabelle della recentissima Commissione Giarda, sembra che anche le spese per gli apparati burocratici dello Stato siano incomprimibili: la voce «servizi generali» incideva per il 12,3 nel 1980 e pesa il 13,8 per cento dell´intera spesa delle amministrazioni pubbliche nel 2009, a dispetto di tutte le campagne di tagli annunciate dai vari governi.
La collezione delle norme che hanno acceso il boom del nostro debito è sterminata. Negli anni Settanta le pensioni italiane cominciarono ad essere calcolate sugli ultimi stipendi (oggi non è più così), furono indicizzate all´inflazione, nel 1971 nacque la Gepi e vennero assunti 600 mila dipendenti pubblici. Tutta colpa dei «formidabili» Anni Settanta? Altrettante responsabilità vanno attribuite agli Anni Ottanta: l´economia cresceva ma i governi, segnati da un alto tasso di corruzione, non ne approfittarono per risanare. Ma forse è agli ultimi dieci anni, dopo l´introduzione dell´euro che bisogna guardare per trovare le responsabilità del rischio-default dell´Italia di oggi. Nel periodo 2001-2006 con Berlusconi e Tremonti si evitò accuratamente di affrontare il problema ricorrendo alle «una tantum»: 19,3 miliardi furono incassati con il condono tombale e furono cartolarizzati gli immobili pubblici senza però migliorare i conti dello Stato. Anzi, già nel 2005 la Ue estrasse il «cartellino rosso» e ci mise sotto accusa per deficit eccessivo (giunto al 4,3%). Dopo la parentesi di Padoa Schioppa, che nel 2007 ridusse il deficit-Pil al 2,7%, siamo tornati nella tempesta: dovuta, in parte, alla crisi internazionale. Ma sono in molti a chiedersi se, ad esempio, i due miliardi destinati alla riduzione dell´Ici nel 2008 non potevano essere spesi per dare un po´ di fiato all´economia e se, anche stavolta, si è persa l´occasione per risanare.

da la Repubblica