attualità, politica italiana

"L´arte di arrangiarsi ora non ci salverà", di Ilvo Diamanti

Temo che il piano del governo per rispondere alla bufera dei mercati non produrrà gli effetti sperati. Non solo per i limiti relativi alle politiche annunciate, né per le turbolenze globali. Oltre a tutto ciò, c´è un altro problema: noi. Gli italiani. E lui. Berlusconi. Insieme al governo “eletto dal popolo”. In definitiva: il rapporto fra gli italiani e chi li governa. In parte, si tratta di una novità.
Gli italiani, infatti, nel dopoguerra, hanno sempre reagito alle emergenze, interne ed esterne. Basti pensare alla Ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta. Quando l´Italia divenne uno dei Paesi più industrializzati al mondo. Gli italiani conquistarono il benessere, l´accesso all´istruzione di massa e ai diritti di cittadinanza sociale. Anche in seguito il Paese continuò a crescere. Soprattutto negli anni Novanta, grazie alle aree e ai settori in precedenza considerati “periferici”. Le piccole imprese, il lavoro autonomo, le province del Nord, il Nordest. In quegli stessi anni, gli italiani reagirono alla crisi – economica e politica – affidandosi ai governi guidati da Amato e Ciampi, all´intesa tra il governo e le parti sociali. Gli italiani, allora, affrontarono manovre finanziarie il cui costo complessivo superò largamente i centomila miliardi di lire. E pagarono molto anche tra il 1996 e il 1998, quando al governo erano Prodi e (ancora) Ciampi. Per entrare nell´Europa dell´Euro. Per non restare esclusi dall´Unione – peraltro ancora incompiuta. Pagarono caro, tra molte proteste, comprensibili. Ma pagarono. Perché compresero che non c´era alternativa, se volevano mantenere il benessere e lo sviluppo conquistati con tanti sacrifici. Oggi – lo ripeto – dubito seriamente che riusciremmo nella stessa impresa. Che saremmo – saremo – in grado di affrontare gli stessi costi e gli stessi sacrifici. Con gli stessi risultati.
Ci ostacola, anzitutto, la nostra identità sociale. Il nostro “costume nazionale”. Gli italiani, infatti, si sentono uniti dalle differenze, locali e sociali. Sono – siamo – un Paese di paesi: città, villaggi, regioni. L´Italia è, al tempo stesso, un collage, una “casa comune”, dove coabitano molte famiglie. Appunto. Perché gli italiani si vedono diversi e distinti da ogni altro popolo proprio dall´attaccamento alla famiglia. E ancora, dall´arte di arrangiarsi. Cioè, dalla capacità di adattarsi ai cambiamenti e di rispondere alle difficoltà. E, ancora, dalla creatività e dall´innovazione. Un popolo di creativi, flessibili, attaccati alla propria famiglia, al proprio contesto locale. E, puntualmente, lontano dallo Stato, dalle istituzioni, dalla politica, dal governo. Una società familista, in grado di affrontare le difficoltà “esterne” di ogni genere. In grado di crescere “nonostante” lo Stato e la Politica. Si tratta di una cornice condivisa, come ha dimostrato il consenso ottenuto dalle celebrazioni del 150enario. Ma è ancora in grado di “funzionare” come in passato? Penso di no. Il localismo, la struttura familiare e quasi “clanica” della nostra società: sono limiti alla costruzione di una società aperta, equa, fondata sul merito. Ostacoli a ogni tentativo di liberalizzare. Gran parte degli italiani, d´altronde, sono d´accordo sulle liberalizzazioni. Ma tutti, o quasi, pensano di trasmettere ai figli non solo la casa e il patrimonio, ma anche la professione, l´impresa e la bottega. E molti (soprattutto quelli che non hanno un lavoro dipendente) vedono nell´elusione e nell´evasione fiscale una legittima difesa dallo Stato inefficiente, esoso e iniquo. Il quale, da parte sua, non fa molto per allontanare da sé questo ri-sentimento.
Difficile, in queste condizioni, rilanciare la crescita, abbassare il debito pubblico, imporre il pareggio di bilancio. Anche se venisse imposto per legge. Anzi: con norma costituzionale.
Eppure – si potrebbe eccepire, legittimamente – in passato questo modello ha funzionato. Già: in passato. Quando eravamo (più) poveri. Quando dovevamo conquistare il benessere e un posto di riguardo, nella società. Per noi e i nostri figli. Quando la nostra economia e il nostro Paese dovevano guadagnare peso e credibilità, sui mercati e nelle relazioni internazionali. A dispetto dei sospetti e dei pregiudizi nei nostri confronti. Ma oggi non è più così. Non abbiamo più la rabbia di un tempo. Semmai: la esprimiamo nei confronti dello Stato e degli altri. Gli stranieri. E in generale: verso gli altri italiani. Sempre più stranieri ai nostri occhi.
Poi, soprattutto, è da vent´anni che il localismo, il familismo e il bricolage sono andati al potere. Interpretati dal partito delle piccole patrie locali: Nord, Nordest, regioni, città e quant´altro. E dal Partito Personale dell´Imprenditore-che-si è-fatto-da-sé. È da 10 anni almeno che lo Stato è stato conquistato da chi considera lo Stato un potere da neutralizzare. Da chi ritiene le Tasse e le Leggi degli abusi. È da 10 anni almeno che il pessimismo economico è considerato un atteggiamento antinazionale, un sentimento esecrabile che produce crisi. È da 10 anni almeno che “tutto va bene”, l´economia nazionale funziona, la disoccupazione è più bassa che altrove (non importa se è sommersa nell´informalità). E se oggi la nostra borsa e la nostra economia arrancano affannosamente – certo, insieme alle altre, ma molto, molto più di ogni altra – la colpa non è nostra, figurarsi. Ma degli altri: i mercati e gli speculatori – cioè, lo stesso. Perché non ci capiscono. Non tengono conto dei nostri “fondamentali”, solidi e forti.
Così dubito che gli italiani siano davvero in grado di affrontare la sfida di questo momento critico. Al di là delle colpe altrui, anche per propri limiti. Perché non hanno – non abbiamo – più il fisico e lo spirito di una volta. Perché oggi essere familisti, localisti, individualisti – e furbi – non costituisce una risorsa, ma un limite. Perché la sfiducia nello Stato e nelle istituzioni, oltre che nella politica e nei partiti: è un limite. (E non basta la fiducia nel Presidente della Repubblica a compensarlo.) Perché l´abbondanza di senso cinico e la povertà di senso civico: è un limite. Perché se a chiederti di cambiare è un governo fatto di partiti personali e di persone che riproducono i tuoi vizi antichi: come fai a credergli?
Perché, in fondo, questo Presidente Imprenditore – e viceversa – in campagna elettorale permanente, quando chiede sacrifici, rigore, equità, non ci crede neppure lui. Strizza l´occhio, come a dire: sacrifici sì, ma domani… Basta che paghino gli altri.
Peccato che domani – anzi: oggi – sia già troppo tardi. E gli altri siamo noi.
L´arte di arrangiarsi stavolta non ci salverà. Tanto meno Berlusconi.

La Repubblica 08.08.11

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La rabbia del Cavaliere “Mi commissariano”, di FRANCESCO BEI
È un vero e proprio ultimatum quello che Merkel e Sarkozy depositano sulla scrivania di Berlusconi, calibrando ogni singola parola del comunicato. Va bene l´anticipo del pareggio di bilancio, ma non basta. Serve ora «un´attuazione rapida e completa delle misure annunciate». Toni perentori, appunto, che non lasciano margini per trattare, come quelli usati nelle scorse settimane con la Grecia. Un altro paese “commissariato” dal direttorio europeo per salvarlo da se stesso e dalla propria classe politica. Del resto la lettera riservata di Trichet, il governatore della Bce, spedita tre giorni fa a palazzo Chigi, conteneva già un elenco preciso di cose da fare. Senza indugi.
Al Cavaliere la nota congiunta è stata anticipata con un colloquio telefonico (conferme non ce ne sono, ma sembra sia stato Sarkozy a telefonare in Sardegna) e ha provocato due reazioni uguali e contrarie. Da una parte il sollievo, perché quel comunicato significa la salvezza, è la prova che Sarkozy è finalmente riuscito a vincere le resistenze della Germania e garantire che la Bce, da questa mattina, inizierà a comprare i Btp italiani sul mercato secondario. Dall´altra l´umiliazione e quindi la rabbia per essere trattato come un leader sotto tutela. Un´irritazione accresciuta anche dall´analisi convergente di Mario Monti apparsa ieri sul Corriere della sera. Proprio il candidato più autorevole per rimpiazzarlo alla guida di un esecutivo tecnico, ha descritto quello di Berlusconi come un governo svuotato della sua sovranità, dove di fatto «le decisioni principali sono state prese da un governo tecnico sovranazionale» insediato tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York. Che sia in atto un declassamento politico dell´Italia è confermato da alcuni piccoli ma significativi episodi. Nonostante a Roma si cerchi di accreditare l´immagine di un premier in «costante contatto» con tutto il mondo, la realtà appare un po´ diversa. La Merkel con il Cavaliere non vuole più farsi riprendere nemmeno in una foto, figuriamoci incontrarlo (oltretutto è stata fino a ieri in vacanza in Italia…). Sarkozy, impegnato a salvare l´Italia per mettere al riparo anche la Francia dal contagio, è rimasto invece colpito dalla gaffe di Berlusconi di venerdì scorso, con quell´annuncio «imprudente» (dicono all´Eliseo) di un vertice del G7 finanziario e poi anche del G8 quando al momento era niente più che un´ipotesi. E l´annunciata – sempre da Berlusconi – telefonata con Obama è caduta nel silenzio imbarazzato della Casa Bianca, dove nessuno l´aveva ancora data per certa. Ci dovrebbe essere, forse, oggi. Chissà. Anche negli Stati Uniti si guarda infatti con preoccupazione a quello che accade a Roma, l´anello debole della catena. La botta all´immagine americana, provocata dal declassamento di S&P, ha fatto passare per un giorno in secondo piano ieri l´emergenza-Italia, che tuttavia da ieri sera torna a dominare l´attenzione, per l´urgenza di dare ai mercati delle certezze.
Per dare concretezza agli annunci e riempire di contenuti l´anticipo del pareggio di bilancio, nel governo si fa sempre più concreta l´ipotesi di un decreto legge, come anticipato ieri da Repubblica. Da approvare questa settimana o dopo ferragosto. Del resto sembra proprio un provvedimento d´urgenza quello che chiedono tra le righe Parigi e Berlino in cambio del sostegno della Bce. Dal poco che filtra da Francoforte, sede della Banca centrale europea, sembra che fino all´ultimo i tedeschi – mandando avanti gli alleati lussemburghesi e olandesi – abbiano puntato i piedi, contrarissimi a comprare titoli pubblici italiani senza precise garanzie. E solo l´aut-aut a Berlusconi contenuto nel comunicato congiunto di Merkel e Sarkozy ha sbloccato la situazione, di fatto commissariando il governo e mettendolo in condizioni di scegliere soltanto “dove” andare a tagliare. Senza più voce in capitolo sul “quanto” e sul “quando”. Da oggi al ministero dell´Economia si riuniranno i tecnici per capire su quali capitoli intervenire, se sull´innalzamento dell´età pensionale per le donne, sull´anticipo dei costi standard nella sanità o sulla revisione della giungla di detrazioni fiscali. Mentre non viene neppure più esclusa a priori, nonostante la contrarietà di Berlusconi, l´idea di una tassa patrimoniale, già riaffiorano le ipotesi di un condono fiscale ed edilizio.

La Repubblica 08.08.11