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«Al Paese non serve un commissariamento, ma un nuovo governo», di Francesco Cundari

Il segretario del Pd propone un esecutivo di personalità credibili
e promette battaglia per correggere le iniquità della manovra. Dire che siamo stati commissariati è dire poco, la verità è che abbiamo
perso la nostra sovranità nazionale». Di fronte alle perentorie richieste di Germania e Francia, la prima considerazione di Pier Luigi Bersani è espressa nel linguaggio che ha fatto la fortuna dei suoi imitatori (e un po’ anche la sua), ma il tono colloquiale non ne attenua la durezza: «Abbiamo perso la sovranità, mica noccioline». Il segretario del Pd, che sta tornando a Roma per essere presente in Parlamento per l’audizione del ministro dell’Economia, non intende però fare buon viso a cattivo gioco. «Se il premier si lascia commissariare – scandisce – noi non intendiamo essere commissariati». Ma«il problema più pressante non è nemmeno questo».
E qual è?
«Il problema è che la faccia di chi dovrebbe presentare le dure ricette prescritte dal commissario è quella di Silvio Berlusconi. Si tratterà di misure drammatiche e bisognerà spiegarle al Paese. Qualcuno pensa forse che l’Italia possa ascoltare questo discorso da Berlusconi? Ma soprattutto, qualcuno pensa forse che Berlusconi, un discorso simile, sarebbe in grado anche solo di pronunciarlo?».
Il Pd cosa propone?
«Per prima cosa, aspettiamo di sapere cosa propone Tremonti. Non ci si venga a chiedere cosa proponiamo noi, prima di sapere cosa propone lui. Dopodiché, una volta chiarito cosa intende fare il governo, è naturale che noi abbiamo le nostre idee, su cui stiamo già lavorando».
Per esempio?
«Primo, i tagli devono incidere il meno possibile su chi ha le tasche già vuote e ha bisogno di consumare. Secondo, sull’evasione fiscale stavolta non si può scherzare, le misure ci sono e le conosciamo, si tratta solo di volerlo. Terzo, non si possono lasciare fuori dalla manovra grandi ricchezze e rendita, e non con misure una tantum, ma con misure strutturali. Quarto, una decina di liberalizzazioni fatte sul serio e due linee di politica industriale. Ma, ripeto, temo che con questo governo siano tutte parole al vento».
Sta dicendo che le dimissioni di Berlusconi sono una pregiudiziale?
«Sto dicendo che la permanenza di Berlusconi rischia di bruciare mese dopo mese gli sforzi che nel frattempo mettiamo in campo, il che naturalmente non significa che noi non faremo comunque la nostra parte, le nostre proposte e tutto quello che sarà necessario per salvare il Paese. Ma ci sia consentito di dire che questo resta il problema dirimente, non solo agli occhi del mondo, ma anche agli occhi degli italiani, e in particolare di quelli che lo hanno votato, che si sono sentiti raccontare tante dolci favole e che ora non sono disposti ad ascoltare discorsi diversi. Un tema che mi pare largamente sottovalutato».
Come se ne esce?
«Prima diciamo come ci siamo entrati. Perché non stava mica scritto da nessuna parte che dovesse finire così. È vero, c’è la crisi mondiale, e dentro questa crisi c’è la crisi europea, ma con tutto questo non era scontato che fosse l’Italia, con i suoi fondamentali,
a finire in prima linea».
Cos’è successo?
«È successo che nel 2008, nemmeno tre anni fa, avevamo lasciato un Paese con un debito al 104 per cento e un avanzo primario sopra il 3, con tutte le condizioni per tenere ragionevolmente la barra dei conti e stimolare un po’ di crescita. Non c’era nessuna ragione per cui dovessimo finire qui».
Tutta colpa di Berlusconi?
«Non solo. La verità è che ora paghiamo il conto micidiale di un populismo e di una personalizzazione della politican così estrema da precipitarci in una condizione di rigidità assoluta. Poi c’e qualcuno che per paradosso dice che c’e il 25 luglio, evocano l’ordine del giorno Grandi con cui fu deposto Mussolini… ma la verità è che qui non c’è nemmeno un Gran Consiglio, nella destra non è rimasto in piedi nessun simulacro di soggetto collettivo che possa far argine a questa deriva. Il contesto ideale per la politica economica dissennata di questi anni, fondata sul principio del non disturbare chi ha i soldi. Ed ecco il risultato». Un quadro a tinte fosche. «È la storia di questi anni. E sia chiaro che questa verità il Pd la ripeterà tutti i giorni, come Catone, per i prossimi anni. E ricordando pure che questi meccanismi in Italia hanno trovato troppa condiscendenza in classi dirigenti estese, che non potevano non essere consapevoli dei mali che stavano arrivando».
Sul Corriere della sera, Alberto Alesina sostiene che il problema è proprio la mancanza di leadership, anche nell’opposizione,e se la prende con la politica nel suo complesso, questa «mediocre leadership che la storia condannerà come non all’altezza». Cosa risponde?
Rispondo che da parte di tanti commentatori, e in particolare di tanti economisti liberisti, certi improvvisi revirement meriterebbero prima qualche riga di autocritica. Perlomeno quando si parla della crisi economica, che in tanti hanno negato fino all’ultimo. Pertanto, ci sia anche consentito di dubitare delle ricette di una scuola che ha portato tali frutti. E in proposito vorrei anche dire che quando misuriamo la differenza tra noi e il resto del mondo, non c’è solo quella tra Berlusconi e la Merkel».
A cosa si riferisce?
«Mi riferisco al fatto che le Monde di qualche giorno fa dedicava tutta la prima pagina all’Italia, concludendo in modo inequivocabile, come tutti i giornali del mondo, che il primo problema si chiama Silvio Berlusconi.
Dunque, tra le grandi differenze tra noi e gli altri paesi d’Europa, metterei pure la distanza tra il nostro dibattito pubblico e il loro». Anche il dibattito interno al Pd su come reagire alla crisi è piuttosto vario.
«Anche noi come partito siamo di fronte a un passaggio decisivo, che segna una fase, e dobbiamo esserne consapevoli. Dobbiamo dire chiaramente che siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità, da partito nazionale, ma senza perdere contatto con le condizioni e gli interessi dei ceti popolari, nella convinzione che solo con l’equità salveremo questo Paese».
Le pare che non tutti abbiano mostrato questa consapevolezza?
«Dico solo che a volte bisognerebbe evitare certi dibattiti riduttivi, certe classifiche tipo vuoi più bene alla mamma o al papà, consideri più importante salvare l’Italia o mandare via Berlusconi? La verità è che le due cose si tengono».
La soluzione è il voto?
«Certo non si può andare avanti così fino al 2013, meglio allora fare come la Spagna e votare. Ma è chiaro che di fronte all’emergenza occorre essere pronti a soluzioni di emergenza, compreso un governo composto di personalità che possano garantire la credibilità che il mondo ci chiede».
L’accuseranno di allinearsi ai poteri forti contro la politica.
«Al contrario. Propongo un atto di generosità della politica, condizione per poter ingaggiare il massimo numero di forze, politiche, sociali e intellettuali, per una riscossa del Paese.
Un risultato che certo non può essere raggiunto attraverso una sospensione o un’espulsione della politica».
Quale che sia il governo, le direttive che vengono dall’Europa non sembrano lasciare molti spazi.Cosa farebbe il Pd se fosse al governo?
«Andiamo in Europa e diciamo che ci facciamo carico dei vincoli, ma la ricetta ce la scriviamo da soli».

L’Unità 09.08.11

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La strategia del Pd: tassare le rendite finanziarie. La linea: il pareggio di bilancio non basta

L’obbligo del pareggio di bilancio scolpito in Costituzione non basta, per dare una scossa alla crescita serve un pacchetto di provvedimenti «immediati». Il Pd vuol fare la sua parte e prepara una «contromanovra» con cui presentarsi giovedì alla riapertura d’emergenza del Parlamento. Sui banchi delle commissioni congiunte di Senato e Camera siederanno Bersani e Letta, Franceschini e Anna Finocchiaro, per offrire agli italiani l’immagine plastica di un partito che lascia l’ombrellone e si rimbocca le maniche. E domani, alla vigilia, i responsabili economici del Pd si vedranno per gli ultimi ritocchi.
«Consultazione permanente» è l’ordine di scuderia di Pier Luigi Bersani, che offre al governo un atteggiamento meno barricadero ma chiede «tagli senza impatti nel sociale, ragionevoli dismissioni, liberalizzazioni immediate di alcune politiche industriali e interventi su rendite e ricchezze». La patrimoniale? Niente misure una tantum, Bersani preferisce misure strutturali. Bisogna intervenire «col cacciavite» nei centri acquisto di beni e servizi per ridurre i costi della pubblica amministrazione e bisogna razionalizzare le spese di Regioni, Province e Comuni. La sua principale preoccupazione è che la manovra vada a infilarsi nelle tasche delle famiglie con redditi medio-bassi. E anche la decisione di modificare l’articolo 81 della Costituzione per rafforzare i vincoli di bilancio, non lo convince. Il responsabile economico Stefano Fassina — che di concerto con il leader e con il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca, sta lavorando alle proposte del Pd — è durissimo: «È una scelta ideologica. Ritengo sbagliato, inutile e dannoso privarsi di uno strumento di politica economica che può servire per un’altra fase». Ma lo chiede l’Europa… «Sì, ma una Ue fatta da governi di centrodestra che ci stanno portando nell’abisso».
A Tremonti l’economista che siede nella segreteria del Pd domanda dove andrà a prendere i soldi per una manovra da 48 miliardi nel 2013. E sarà questo il tasto su cui, con più forza, batterà Bersani in commissione. «Spostare il prelievo sulla rendita — è il leitmotiv —. Cambiare la manovra in direzione dell’equità…». Ci fosse lui al suo posto, farebbe né più né meno che quel che tentò quando era al governo con Prodi: liberalizzazioni e ancora liberalizzazioni, dai carburanti alle banche, dalle assicurazioni alle professioni. E poi la riforma fiscale, dove la formula magica si basa su tre identiche aliquote del 20 per cento. «Chiediamo l’immediata tassazione delle rendite finanziarie e la riduzione del carico fiscale per le imprese», entra nel merito Fassina. E come Bersani ha già annunciato nei giorni scorsi, occorre puntare sulle politiche industriali.
Le pensioni non si toccano. Mentre sui costi della politica Bersani è pronto a impugnare le forbici per dimezzare i parlamentari, accorpare i Comuni, riorganizzare le Province e «abbattere» gli enti a partecipazione pubblica. E chissà se la svolta programmatica del leader convincerà la minoranza, che spinge per imboccare la strada della responsabilità. «La crisi va parlamentarizzata — incalza Beppe Fioroni —. Sono favorevole alla commissione bipartisan di Casini o almeno a un gruppo di lavoro congiunto tra Camera e Senato. Venti Regioni sono troppe, ne bastano 12. Dobbiamo liberalizzare le municipalizzate, aumentare l’Iva e imporre la patrimoniale».

Il Corriere della Sera 09.08.11