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«Non solo teppisti, la crisi è politica e sociale», di Lazzaro Pietragnoli

«Bisogna condannare i violenti, da qualsiasi parte essi stiano, ma bisogna anche analizzare e capire le ragioni vere di queste manifestazioni di violenza». Mark Fisher – docente all’università di Warwick, dove dirige il Centro di ricerca sulla cultura cibernetica, e blogger con uno specifico interesse nelle manifestazioni di dissenso culturale – non accetta le spiegazioni ufficiali di quello che lui si ostina a chiamare l’establishment.
Sono ormai due notti che le strade di vari quartieri della capitale inglese vengono tormentate da una violenza diffusa, con saccheggi di negozi, incendi, attacchi alla polizia: il ministro degli interni Theresa May è rientrata di corsa dalle vacanze e uomini delle forze dell’ordine sono stati chiamati a Londra dal resto del paese per fare fronte a eventuali ulteriori manifestazioni di violenza nelle prossime notti.
«Ho sentito – prosegue Fisher – esponenti del governo, parlamentari dell’opposizione laburista, poliziotti e giornalisti parlare tutti con una stessa voce, per dire che si tratta di gruppi di violenti, che nulla hanno a che vedere con la popolazione locale, professionisti della guerriglia che approfittano di una situazione locale per portare avanti le loro azioni. Io credo che si tratti di una lettura sbagliata, minimizzante, che non tiene in considerazione quello che è successo nella società inglese negli ultimi dodici mesi e non considera le ricadute che si sono sentite in particolare nelle zone periferiche ed emarginate».
Secondo Fisher è «vergognoso» limitarsi a dire che si tratta della reazione di una minoranza violenta: «Se non capiamo perché l’uccisione di un pregiudicato da parte della polizia ha un’eco così forte e un significato simbolico così sconvolgente, siamo destinati a rimanere vittime della nostra stessa miopia».
Quali profonde trasformazioni sono successe negli ultimi dodici mesi?
Partiamo dalle occupazioni universitarie contro l’aumento delle tasse, dalle manifestazioni contro le politiche economiche del governo, dai movimenti spontanei nati in molti quartieri per contrastare i tagli allo stato sociale. Sono segni di disagio fortissimo, ma non hanno ottenuto alcuna risposta. Già allora si vedevano le prime manifestazioni di violenza, come l’attacco alla macchina di Carlo e Camilla, e già allora questi segnali venivano minimizzati, da destra e da sinistra, come prodotto di estremisti isolati. Non è così, purtroppo. Queste manifestazioni di violenza vanno condannate, ma sono l’unica arma che certe volte può essere usata per protestare davvero: di fronte alla più imponente manifestazione contro le politiche del governo degli ultimi vent’anni quale è stata la risposta delle istituzioni? Nulla. Non dico che doveva cadere il primo ministro, come successe con la Thatcher e la poll tax, ma almeno qualche modifica marginale per dare credito al movimento di avere delle ragioni. Se le parole di chi si oppone non vengono ascoltate, neanche quando si alza il volume al massimo, è purtroppo inevitabile che poi la disperazione trovi uno sfogo nella violenza.
Secondo lei quindi si tratta di una manifestazione di dissenso estremo, che ha radici nel malcontento diffuso?
Io osservo che lo scorso anno, tra settembre e dicembre, le strade di Londra e di altre città inglesi erano attraversate da una certa “euforia del dissenso” e che questa euforia è stata tarpata dall’establishment, da quelli che volevano incanalare il dissenso verso il loro partito, da quelli che non volevano il dissenso e da quelli che non volevano neppure l’euforia. Non solo si stanno distruggendo le possibilità future di una intera generazione, ma si sta anche impedendo a questa generazione di auto-organizzare la propria opposizione.
Io credo che ci siano state nei mesi scorsi diverse occasioni in cui la protesta dei giovani, e dei meno giovani, ha cercato di prendere strade nuove, ma si è sempre cercato o di fermarle o di incanalarle nelle strade vecchie.
Qualche episodio in particolare?
Penso alla manifestazione organizzata da UK Uncut alla fine della marcia dei sindacati nel marzo scorso, con una occupazione simbolica e pacifica di Fortnum&Mason, un modo per portare la protesta sociale in un ambiente diverso, di legare il malessere di classi sociali diverse, di costruire quella famosa alleanza trasversale di cui parliamo da vent’anni. Ecco, quella piccola manifestazione è diventata invece la pietra dello scandalo con sindacalisti e esponenti laburisti uniti al governo nel dire che si trattava di “gruppi anarchici”, “minoranze organizzate” e altre cose analoghe. Non si capisce la portata di queste manifestazioni e le si vuole forzare nei vecchi recinti. Secondo me quella occupazione simbolica e pacifica fatta da 200 persone valeva di più dei milioni portati in piazza dai sindacati. Si tratta di un sistema morente cerca di tenersi in piedi da solo, ma che ormai è screditato anche nelle strutture fondamentali.
Che cosa intende dire? Perché crede che l’uccisione di un pregiudicato abbia questo significato così dirompente?
Perché ormai la gente ha perso la fiducia nella polizia, un’istituzione compromessa, la cui dirigenza è stata decapitata da scandali e inchieste. E lo stesso si dica per il parlamento, per il governo, un’operazione di alchimia che nessuno ha votato. C’è una crisi di credibilità istituzionale che si somma alle difficoltà economiche, e c’è una volontà dall’alto di incanalare le tensioni che esaspera le situazioni e fa esplodere queste manifestazioni di violenza. E poi le nega.
Lei è anche un esperto di nuovi media e di social network. Che ruolo giocano nell’organizzazione di questo dissenso?
Anche Scotland Yard è stata costretta a riconoscere che non sono attrezzati per fare fronte alle nuove forme di comunicazione del movimento. Si tratta della forza dirompente di un nuovo modo di comunicare, che da Tottenham nel nord di Londra fino a piazza Tahir in Egitto dà alla gente quel potere che le forze dell’establishment gli vorrebbero negare.

da Europa Quotidiano 09.08.11