cultura

"Sogno un paese innocente", di Vincenzo Cerami

Pare di sentirla la voce diroccata di Ungaretti: «Cerco un paese / innocente». Quel paese è chiuso da bastioni. Il sogno è varcare la porta d’avorio. Cercare è sognare. Ogni tanto giunge notizia che una persona ha tentato di entrare, e c’è riuscita: quel tanto di buono che si vede intorno a noi è stato immaginato da qualcuno. Molti psichiatri dicono che i sogni servono a buttare nel cestino ciò che non serve alla nostra memoria, e a conservare quanto è utile ai progetti dei giorni a venire, giorni che sono pieni di cose da scartare. Ci teniamo solo quello che non esiste ancora, e che probabilmente non esisterà mai. Concepire i sogni come qualcosa di impossibile, che non si realizzerà mai, è triste. Significa credere che la vita è triste. E basta. Per molti sarà pur vero, ma è sentimento poco originale. Ogni discorso finisce lì. È più allegro vedere il sogno come una verità travestita, che si vergogna di andare in giro nuda, perché fa scandalo. Sotto quegli abiti stravaganti c’è un corpo vivo. Non è il caso di scomodare Calderón o Nerval. I sogni abitano con noi, ci fanno compagnia. Se sei giù di corda, fermati, chiudi gli occhi e vaneggia un po’, và lontano con la fantasia: spesso è guardando le stelle che siamo più vicini a noi stessi.

La strabiliante attualità dell’ingegnoso hidalgo ci racconta che le più impervie esplorazioni si compiono nello spazio domestico, tra cose che tutti possono vedere e toccare. Non c’è forse la reale battaglia di Lepanto nel romanzo di Cervantes? Non fu lì che egli venne gravemente ferito, tanto da perdere l’uso della mano sinistra? Il sogno di Don Chisciotte è una finestra spalancata per fare entrare la luce del giorno nei piccoli spazi della quotidianità, e scoprirne la vasta ricchezza. I sogni sono le opere che l’uomo vuol compiere, e, per dirla con Borges, appartengono alla memoria di tutti.

Non è poi così infantile pensare che la storia di tutta l’arte sia la raccolta cronologica dei sogni, legati, generazione dopo generazione, dal comune soffrire per un’assenza, per qualche cosa che aspettiamo e non arriva mai. Spesso sono racconti illusori o di delusioni. Un ignoto passante scrisse su un muro: «Il pessimismo conserviamolo per giorni migliori di questi!». Forse era uno di quegli incalliti ottimisti che fanno le parole crociate usando la penna. Ma è certo, questo sì, che nessuno può sognare se non crede in qualcosa di buono, nell’esistenza di un paese innocente. In giro c’è tanto orrore. Ma a creare felicità non basta una vita, non ne bastano mille. L’ottimismo e l’ottimo sono distanti, come il giorno dalla notte. Eppure sogno e ottimismo possono prendere l’aspetto di una ghiotta merce per chi campa di oratoria. Sono l’abito elegante della menzogna. I sette cieli promettono un mondo perfetto, e insieme una speranza. Ma in nome della felicità eterna si compiono più crimini che buone azioni. Ed è altrettanto delittuoso rincorrere la felicità di tutti ignorando quella di ognuno. È cieco chi vede solo tanti uomini insieme, e neanche uno che se ne sta solitario, per conto suo, a fantasticare. E com’è sgrammaticato versare più lacrime per mille morti che per uno soltanto.

Il Sole 24 Ore 14.08.11