attualità, politica italiana

"Il caso Bossi", di Stefano Menichini

La quarta manovra in un anno sarebbe stata comunque un gran pasticcio, perché il livello di approssimazione e di improvvisazione del governo e della sua maggioranza supera ormai ogni precedente. Non siamo quindi qui a dire che lo sbandamento della politica italiana dipenda tutto da un uomo solo: non da Berlusconi, naturalmente neanche da Umberto Bossi.
È però evidente a tutti – e nel Palazzo normale argomento di conversazione, senza però assumere dignità di discorso pubblico, per ragioni comprensibili – che il leader della Lega rappresenta ormai un problema a sé. Certo, lo è sempre stato, fin dalla prima sua apparizione sulla scena nazionale: ma per lunghi anni si trattava di un problema esclusivamente politico, complicato e anche affascinante considerando l’incredibile storia della sua creatura, la Lega nord.
Ora invece, a sette anni dall’ictus cerebrale che poteva essere un handicap definitivo, e invece venne energicamente affrontato e in gran parte vinto, Bossi aggiunge al nodo politico di una Lega in crisi di consensi e di politiche l’aggravante di una imprevedibilità e inaffidabilità personali che hanno radici nella patologia, non nel tatticismo di sempre.
Avrete notato che ormai nessuno reagisce, fra i molti che quotidianamente vengono colpiti dai sanguinosi e improvvisi insulti di Bossi, dalle sue pernacchie, dalle sue linguacce, dai suoi diti medi alzati, dalle sue sconcezze. È il comportamento tipico – e apprezzabile – di chi si rende conto di aver contro una persona che non ha tutto il controllo di sé. Non rispondi, fai finta di nulla, cerchi di evitare in un primo momento lo scontro, poi naturalmente da quel momento in poi anche l’incontro.
Ma se si può evitare lo scontro con Bossi, è impossibile evitare di incontrarlo. E quindi di dargli occasione di esternare, a modo suo.
Giorni fa avevamo chiesto su Europa, consapevoli del paradosso, che i giornalisti evitassero di porre domande all’instabile ministro delle riforme. Ma come si fa? Bossi – va detto con sincera ammirazione – è il perno della crisi politica italiana. È il protagonista dei vertici più ristretti (ma lì ora verrà informato proprio su tutto?). È il leader carismatico e insostituibile di un partito decisivo per la tenuta della maggioranza (dentro al quale si svolge però una lotta furiosa, e ormai molte cose accadono senza che Bossi le decida, le sappia o possa influenzarle). Infine, Bossi è l’uomo in difficoltà al quale si appoggia per non cadere l’altro uomo in affanno politico e personale: Berlusconi sa che non sopravviverebbe sulla scena un minuto di più del suo ex nemico, ora amico fraterno.
Intendiamoci, Bossi è tutt’altro che pazzo, o privo di capacità di intendere e volere. Casomai può darsi che i suoi deficit personali siano acuiti, causando esasperazione, dalla lucida comprensione della crisi della Lega, che è strategica e non tattica. L’ostinazione contro Tremonti sull’età pensionabile fa parte delle intuizioni del capo che sa cosa non può permettersi di fronte alla propria gente. Del resto, fu sulle pensioni che saltò nel 1994 la prima avventura comune di Bossi e Berlusconi.
Nella sua istintiva e quasi animalesca difesa della Lega, il Senatùr finisce però ogni giorno per travolgere qualcuno o qualcosa, in questo modo rivelando i giochi, i duelli e anche le paranoie che animano i vertici ristretti del centrodestra: ne vanno di mezzo da Draghi a Brunetta, dalla Bce a Napolitano, e ogni volta i dirigenti del Pdl devono ricucire, e ogni volta si ritrovano più deboli ed esposti di prima.
È chiaro che solo dentro la Lega, in quella fornace di passioni e ormai anche di odii e diffidenze, potrà risolversi in qualche modo il caso Bossi. I più disarmati in effetti sembrano proprio loro, i leghisti: come capita nelle famiglie nelle quali c’è un simile problema col capofamiglia. Se non altro un motivo in più per raccomandarsi, d’ora in poi, di non cedere più alla tentazione del partito personale.

da Europa Quotidiano 17.08.11