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"Aspettando il ruggito del leone", di Francesco Guerrera*

La crisi economica americana non ha risparmiato nemmeno il Re Leone. La versione di Las Vegas del mega-show della Disney, ispirato dal «Libro della giungla» di Rudyard Kipling, chiuderà per sempre il sipario a fine anno, dopo più di mille performances. La fine dello spettacolo, con la famosissima musica di Elton John, lascerà centinaia di persone senza lavoro, aggravando una situazione già difficile in una delle città più colpite dal crollo del mercato immobiliare Usa. L’ultimo ruggito del leone è una metafora triste per un Paese che è da anni il re della foresta economica. A tre anni da una crisi finanziaria che sarebbe dovuta essere un evento epocale, non ripetibile nel corso delle nostre vite, l’America e il mondo occidentale si ritrovano sul baratro della recessione. Come nel 2008, i mercati sono in caduta libera, i consumatori hanno paura di spendere, e le banche non vogliono prestare soldi né ad aziende né ad individui. I disagi americani sono accompagnati da un malessere ancora più profondo in Europa – il mercato più importante per i beni e servizi made-in-Usa. E i governi, il deus ex machina che salvò l’economia mondiale con miliardi di aiuti durante l’ultima crisi, questa volta sono troppo indebitati per aprire i cordoni della borsa. E allora? Allora si soffre.

Un banchiere mio amico, che di solito è un ottimista inveterato, ha fatto un riassunto perfetto della situazione questa settimana. «Ormai – mi ha detto – oscillo tra l’essere pessimista e l’essere molto pessimista». Nell’America di oggi, il pessimismo sembra una condizione cronica, che affligge investitori, aziende e gente comune, e che esacerba lo stallo economico a tutti i livelli.

Partendo dalle radici della foresta economica: la gente comune non riesce a comprarsi casa. Le ultime notizie dal fronte immobiliare sono scoraggianti: le vendite di case sono calate del 3,5% tra giugno e luglio: una brutta sorpresa per i mercati e non solo perché l’estate è il tempo degli acquisti. Le nuove cifre hanno contraddetto le rilevazioni dei mesi passati che indicavano un aumento nel numero di contratti di vendita. Per gli esperti, questo significa che potenziali acquirenti stanno rinnegando i contratti perché hanno paura di un’altra recessione. L’alto tasso di disoccupazione e il continuo calo dei salari rinforzano questa ipotesi: nonostante tassi d’interesse bassissimi, molte persone non vogliono un mutuo se non sono sicure che avranno un posto di lavoro ed uno stipendio per ripagarlo.

Il mercato immobiliare è una delle locomotive dell’economia americana e, se non tira, altri consumi – mobili, televisioni, frigoriferi e così via – ed altri settori, dalle costruzioni ai trasporti, ne soffrono. Ai piani buoni dell’economia, il morale non è tanto più alto. E’ vero che le società americane – dopo aver imparato la lezione di altre crisi – hanno pochi debiti e molti liquidi in cassaforte. Ma è anche vero che non hanno nessuna intenzione di investirli negli Usa, soprattutto se l’economia domestica è in difficoltà e le esportazioni verso l’Europa languono. Le mie conversazioni con capitani d’industria, sia americani che europei, cominciano e finiscono con due parole: «emerging markets». I mercati emergenti di Brasile, Cina e India, con le loro popolazioni enormi e tassi di crescita strepitosi, sono il Santo Graal del capitalismo mondiale.

Poco importa che gran parte di quei miracoli economici sia basata sulla vendita di materie prime e beni a basso costo a un’America e un’Europa che hanno sempre meno soldi per comprarle: gli azionisti e i mercati hanno bisogno di speranze. Ma non di sole speranze vive un’economia e le mosse strategiche delle aziende indicano una realtà diversa. La Delta Airlines, la più grande compagnia aerea americana, ha appena annunciato che ridurrà i suoi voli del 5% perché le costa troppo far decollare aerei mezzi pieni. Compagnie grandi e piccole – da Cisco (il gigante di Silicon Valley) a banche con tre filiali – stanno tagliando migliaia, forse milioni, di posti di lavoro per far fronte ad un’emergenza economica che non si aspettavano.

In una congiuntura normale, tre anni dopo una recessione, l’economia dovrebbe essere in piena ripresa con salari in aumento e disoccupazione in calo. Invece, il dibattito sulle pagine economiche dei giornali e nei talk-show in televisione è se siamo già in una nuova recessione. La domanda è a trabocchetto, visto che le imperfezioni della scienza economica fanno sì che periodi di contrazione economica possano essere individuati solo quando stanno per finire, mai all’inizio. Ma questo non impedisce agli esperti di fare predizioni. Quando il Wall Street Journal ha chiesto a 60 economisti di recente, la risposta è stata che in media, c’è una chance su tre che il 2012 sia un anno di recessione. Il 2012 è anche l’anno delle elezioni presidenziali e il malore economico del paziente americano sta contagiando l’amministrazione Obama.

I sondaggi non danno buone notizie. L’ultimo, pubblicato mercoledì dalla Gallup, ha rivelato che solo un quarto della popolazione è soddisfatto con le politiche economiche della Casa Bianca, il livello più basso della presidenza Obama. Gli alleati di Obama dicono che la colpa è di Bush e di un governo repubblicano che ha lasciato una montagna di debiti e un retaggio di tensioni sociali tra ricchi e poveri. Guardando i fatti, non hanno tutti i torti, ma l’americano medio non gli darà mai ragione. Senza un miglioramento economico, la rielezione di Obama è a rischio anche se i repubblicani si ostinano a presentare candidati deboli e discutibili. Un po’ di tempo fa, uno degli strateghi di Obama mi disse che la Casa Bianca avrebbe avuto bisogno di un livello di disoccupazione di meno dell’8% per vincere le presidenziali del 2012. Oggi la disoccupazione è a più del 9% e non dà segni di flessione. «E’ l’economia, stupido!» – lo slogan che aiutò uno sconosciuto governatore dell’Arkansas chiamato Bill Clinton a battere il patrizio Bush padre nel 1992 – potrebbe diventare un boomerang letale per i democratici. Il Presidente ed il resto della popolazione hanno un bisogno quasi disperato di un nuovo ruggito del Leone americano.

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del «Wall Street Journal» a New York.

La Stampa 21.08.11