attualità, politica italiana

"Parlamento e doppio lavoro", di Pietro Spataro

C’è una questione che fa tanto discutere e suscita reazioni dure, soprattutto oggi che la crisi morde le famiglie italiane: lo stipendio dei parlamentari. Non c’è dubbio che deputati e senatori guadagnino un bel po’, più di altri loro colleghi all’estero. Per questo è giusto procedere rapidamente a un adeguamento ai livelli europei.
Ben oltre il taglio del 5% previsto nel decreto sulla manovra. A rifletterci bene, però, non è questo l’aspetto più discutibile. Il problema grave è un altro: che sia ammesso il cumulo tra il reddito parlamentare e quello derivante da un secondo lavoro, che consente a molti di rimpolpare l’indennità pagata dallo Stato. In Parlamento sono 446 gli onorevoli (quasi la metà del totale) che si trovano in questa anomala situazione. Poco meno di un terzo di loro sono avvocati, seguono imprenditori, dirigenti, giornalisti e medici. Ora, dovete sapere che se un dipendente pubblico diventa parlamentare viene messo subito in aspettativa e non prende un euro dal vecchio lavoro. Succede ai magistrati o ai docenti. E perché non dovrebbe valere per gli avvocati? Solo perché una buona parte sono fedelissimi del Cavaliere?
Questa strana regola del doppio lavoro pone due questioni rilevanti. La prima riguarda il conflitto di interessi. L’esercizio di un’attività o di una professione comporta la stipula di contratti e obbligazioni e l’assunzione di decisioni che possono entrare in conflitto con l’autonomia del parlamentare che è alla base del patto sottoscritto con gli elettori. Qualcuno dirà che, di fronte al ben più grande conflitto di Silvio Berlusconi, questo è poca cosa. Fatte le debite proporzioni, non è così: sono due facce dello stesso «scandalo italiano». La seconda questione è ancora più seria perché tocca il rapporto tra eletto ed elettore e investe la funzione di rappresentanza. «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione», ci ricorda la Costituzione.Nell’esercizio di questa funzione non vale il censo, e infatti il parlamentare «riceve un’indennità stabilita dalla legge». Questo fa sì che possa fare il deputato (come accade, anche se sempre più di rado) un operaio, un impiegato o un precario. Insomma, anche chi non è ricco. Semplificando: il
parlamentare è, per la durata del mandato, un «funzionario dello Stato», si occupa del bene comune, è al servizio della Nazione. Quando l’elettore sceglie il suo rappresentante vuole che faccia stabilmente (e anche seriamente) il lavoro per cui viene pagato. Senza alcuna distrazione. Il doppio lavoro non garantisce: anzi, da uno studio della «voce.info» risulta che l’assenteismo, in questi casi,
aumenta. E oggi siamo al 37%. Noi vogliamo che, come accade nel Congresso Usa, chi siede in Parlamento faccia il parlamentare e basta. Metta da parte il vecchio lavoro, reddito compreso (gli strumenti tecnici si possono facilmente individuare) prenda il solo stipendio pubblico, lavori a tempo pieno e renda conto del suo impegno. Per questo l’articolo 13 del decreto sulla manovra ci pare tanto un buffettino: dimezzare l’indennità di base (che è di 5486,58 euro) nel caso in cui le entrate extra del parlamentare superino il 15% dello stipendio pubblico, sembra solo un contentino simbolico. Che sono 2700 euro in meno per chi, in alcuni casi, viaggia su redditi milionari?
Siamo convinti che la politica sia una cosa seria, che l’esercizio del ruolo parlamentare debba ritrovare la dignità perduta: è un lavoro importante e non un tempo tra un’udienza e l’altra. Contro questa insostenibile anomalia ci batteremo con forza, senza fare sconti a nessuno. Perché la politica è un «bene comune» e non un affare privato.

L’Unità 21.08.11