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"La città brucia con il suo raìs", di Bernardo Valli

Tutto, o quasi tutto, è crollato come un castello di sabbia. Con un´avanzata lampo, i ribelli hanno sfondato senza incontrare una seria resistenza “l´anello d´acciaio” destinato a difendere Tripoli, e sono entrati nei quartieri occidentali della metropoli, acclamati dalla popolazione. Alcune pattuglie hanno raggiunto la piazza Verde, quella dei grandi comizi del rais, dove c´era una folla entusiasta ad accoglierle, ma anche sparute unità governative pronte a combattere. E infatti si è acceso uno scontro a fuoco. A tarda notte una contabilità approssimativa dava centotrenta morti nell´insieme della capitale. Un figlio del rais, il preferito, quello che doveva succedergli, il secondogenito Saif el-Islam, è stato catturato. Il regime di Muhammar Gheddafi è ormai agonizzante. Sembra barricato nella parte orientale di Tripoli, dove i ribelli dovrebbero scontrarsi con i reparti più agguerriti, nel caso questi non si disperdessero come le truppe destinate a difendere la città. Ma lui, Gheddafi, non è rassegnato alla resa resa. Al contrario i suoi messaggi trasmessi per telefono sono stati diffusi con insistenza da radio e televisione. E definivano i ribelli «topi che scendono dalla montagna» ; e l´offensiva in corso una semplice mascherata. Il suo sarcasmo risuonava come un´eruzione di collera. Di rabbia. Ma non di disperazione. I suoi inviti alla resistenza si sono ripetuti nella notte con toni ancora più fermi: «Se il popolo non si difende Tripoli sarà distrutta». Il rais braccato, umiliato, sconfitto nella sua capitale non ha perduto la grinta. Una grinta sconfinante nell´irresponsabilità. Mentre si spara, si combatte per le strade della sua capitale, lui ha tutta l´aria di voler vendere a caro prezzo insieme alla propria pelle anche quella dei suoi fedeli, e più in generale del suo popolo. Che per la verità acclamava i ribelli vincitori, come avevano acclamato lui per quarant´anni. Mentre una battaglia decisiva era in corso il colonnello diceva che non si sarebbe mai arreso e annunciava che« Tripoli brucerà». Più cauto era il suo portavoce, Mussa Ibrahim, di solito intransigente e fedele interprete della fermezza del capo. Mussa Ibrahim in un´improvvisata conferenza stampa all´Hotel Rixos, dove alloggiano i corrispondenti stranieri, si dichiarava pronto a negoziare con i ribelli.
Anche se non del tutto conquistata dai nemici, Gheddafi ha perduto la sua capitale. Ma in una società tribale non saper perdere e trascinare la propria gente in una sanguinosa sconfitta, può essere una dimostrazione di coraggio. Una prova estrema per un rais che vuole restare nelle memorie. Alla società tribale Gheddafi si è del resto richiamato spesso negli ultimi tempi, al fine di spiegare a suo modo le cause della guerra civile, per lui non riducibile allo scontro tra dittatura e desiderio di libertà, ma a una lotta tra clan. Clan etnici passati dalle tende del deserto ai grattacieli del petrolio, ma sempre immersi in rivalità e vendette. Richiamandosi alla società libica originaria, Gheddafi ha annunciato un inevitabile finale tragico, nel rispetto dell´onore della tribù. È quello che sta accadendo in queste ore. Nei quarant´anni di potere ha spesso sfidato la morte, sempre assistito dalla «baraka», la fortuna che accompagna i guerrieri nella tradizione magrebina.
Ma dov´è adesso lui, il rais, mentre il laccio si stringe? È da tempo che non si mostra, e questo ha indotto a pensare che fosse già lontano, in un luogo sicuro. Lui ha sentito il sospetto, si è inorgoglito e ha subito giurato di essere sul posto. Non è sulle mura della città assediata con la spada in pugno, ma rintanato in un bunker. Un bunker nella Tripoli che comincia a bruciare? Alcuni pensano che scortato dai reparti fedeli egli stia ripiegando nel deserto, dove potrebbe continuare la resistenza e soprattutto evitare di apparire davanti a un tribunale internazionale. Mentre si spara per le strade è in corso una gara per diffondere false notizie, che rendono difficile fare un esatto ritratto della situazione. Quella di Gheddafi in fuga nel deserto, seguito dai fedeli, è una di quelle voci. Dichiarandosi pronto a negoziare, Mussa Ibrahim, il suo portavoce, prenderebbe tempo. Me nel frattempo sono atterrati due jet sudafricani su una pista dell´aeroporto di Tripoli. E allora si è pensato che il rais ha forse un´altra meta.
L´attesa implosione del regime sembra comunque avvenuta, vista la scarsa resistenza opposta finora dai reparti ritenuti legati per la vita e la morte al rais. Negli ultimi decenni la solidarietà tribale si è frantumata con l´inurbamento dei beduini, e ha risentito della miracolosa crescita dei redditi dovuta al petrolio. Ma attorno al rais si erano saldati interessi e fedeltà che spesso ricalcavano le vecchie alleanze etniche. E poi c´era la storica rivalità tra Tripolitania e Cirenaica, accompagnata dal timore di inevitabili regolamenti di conti. Il regime ha fatto migliaia di vittime, e altrettante vendette erano e sono in attesa.
Non solo gli insorti sono arrivati sulla Piazza Verde, ma altri reparti convergono rapidamente sulla capitale arrivando da est, da sud, da ovest. Ed anche dal mare, da nord, poiché imbarcazioni con uomini armati sono salpate dal porto di Misurata e sono arrivate sulle spiagge della capitale. La capitale era ritenuta ben armata e capace di reagire con forza a qualsiasi tipo di aggressione. Era in realtà come in preda a un´ipnosi, dopo quarant´anni di potere gheddafiano. E ieri sera si è risvegliata. Decine di migliaia di kalashnikov erano state distribuite alle famiglie giudicate sicure, in ogni quartiere. E il richiamo al patriottismo sollecitato dalla propaganda contro l´aggressione degli stranieri, avidi di petrolio libico, non sembrava caduto nel vuoto. Inducevano a crederlo le imponenti manifestazioni di piazza, anche recenti, senz´altro organizzate dal regime con pretesti e forti pressioni, ma non del tutto prive di spontaneo nazionalismo. Gli esperti occidentali (americani, francesi, inglesi, ed anche italiani, quest´ultimi veterani di Libia) non hanno calcolato questa reazione patriottica che Gheddafi ha saputo più imporre che ispirare.
La conquista da parte dei ribelli di Zawiya, città sulla strada diretta al confine occidentale, è stata decisiva. La via attraverso la quale arrivavano i rifornimenti, dall´acqua minerale alla benzina, dal cous cous ai montoni, è stata interrotta. E subito la Tunisia, dalla quale partivano quei prodotti che facevano vivere Tripoli, ha disconosciuto il regime di Gheddafi e ha riconosciuto quello di Bengazi. Se non era più in grado di garantire alla sua gente i generi di prima necessità, neppure la luce elettrica, il rais era destinato alla sconfitta. La fulminea decisione del governo di Tunisi, presa subito dopo la conquista di Zawiyha, è stata dettata da un freddo realismo. Ha avuto il valore del rintocco di una campana che annuncia una morte imminente.
Quando l´ho attraversata, per andare e ritornare da Tripoli, Zawiyha mostrava i segni delle numerose battaglia tra ribelli e lealisti. Tutti sapevano che l´andamento del conflitto dipendeva da quella modesta e contesa località, che ospita un´importante raffineria. Là i ribelli hanno cominciato a radunare la «Brigata Tripoli», composta di mille insorti destinati a investire e controllare la capitale. Si sono addestrati nella città occidentale di Nalut e sono entrati in azione prima del previsto, aiutati da una sorprendente situazione che li ha portati fino nel cuore di Tripoli, nel giro di poche ore. E senza sparare troppi colpi di fucile o raffiche di kalashnikov.
La Nato, l´Onu, e in generale tutte le capitali impegnate nel conflitto, temevano che la caduta di Gheddafi avvenisse con un massacro, si concludesse in un bagno di sangue. Il rischio sussiste. Un colpo di mano che esautori il rais, lo mandi in esilio, e avvii trattative con il Consiglio nazionale di transizione, installato a Bengasi, sarebbe una soluzione ideale. Qualcosa di simile si sta realizzando. Poiché Gheddafi è introvabile ma senza, almeno per ora, una difesa efficace. Molti operano in queste ore per rendere possibile quel colpo di ano. Ma i tempi sembrano ormai scaduti e i capi dell´insurrezione, benché riconosciuti ormai da mezzo mondo come rappresentati di un potere legittimo, stentano a gestire una situazione esplosiva. Essi non controllano tutte le forze armate in campo nelle zone liberate. Gli elementi islamisti, presi in un primo tempo alla sprovvista dalla rivolta, si sono organizzati, si sono dotati di mezzi svaligiando i magazzini del nuovo esercito, e rifiutano ad esempio di combattere sotto la bandiera degli «infedeli», cioé della Nato, dichiarandosi pronti ad occuparsi soltanto di problemi di sicurezza interna.
È il caso della Brigata Abu Ubaidah bin Jarrah, i cui capi potrebbero non essere estranei all´uccisione del generale Abdul Fatah Yunis, comandante delle nuove forze armate ribelli ed ex ministro degli interni di Gheddafi. In quest´ultima veste Yunis ha perseguitato gli islamisti, che si sarebbero vendicati. Il capo di un´altra formazione islamista, la Brigata dei martiti del 17 febbraio, è il religioso Ismail el-Sallabi. Il quale sostiene che Yunis sia stato ucciso da agenti provenienti da Tripoli e infiltratisi a Bengazi. Altri pensano che Yunis fosse una spia di Gheddafi e che la Cia l´abbia soppresso. Tante sono le versioni sull´assassinio, ma il risultato immediato è stato il crollo del governo. Per dissipare i sospetti, Abdel Mustafa Jalil, presidente del Consiglio nazionale di transizione, ha costretto alle dimissioni tutti i ministri, ad eccezione di Mahmud Jibril, il primo ministro. Mentre ci si prepara a una decisiva battaglia per Tripoli, nella Libia libera, a Bengazi, si teme che un giorno si arrivi a un conflitto tra forze laiche e forze islamiste. Ed è già bizzarro che con quest´ultime abbia cercato di avere buoni rapporti Saif al-Islam, uno dei figli di Gheddafi arrestati ieri sera. In una intervista al New York Times Saif ha detto che la Libia dopo Gheddafi dovrebbe essere uno Stato islamico. Insomma, il futuro, vicino e remoto, è piuttosto torbido.

La Repubblica 22.08.11