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"Effetto domino su Assad", di Maurizio Molinari

Dopo aver eliminato Osama bin Laden e rovesciato Muammar Gheddafi il presidente americano Barack Obama punta alla caduta di Bashar Assad. La Casa Bianca non ama l’espressione «presidente di guerra», evita di parlare di «missioni compiute» e teorizza il ruolo di leadership americana nel mondo «guidando dal sedile posteriore» ma ciò non toglie che da Abbottabad a Tripoli fino a Damasco stia prendendo forma una dottrina Obama contro despoti e dittatori. Per capire di cosa si tratta bisogna ascoltare Ben Rhodes.

Il trentenne esperto di strategia che scrive gran parte dei discorsi di Obama sulla sicurezza nazionale, quando afferma che «questa amministrazione segue politiche diverse su ogni scenario» partendo dalle «condizioni sul terreno». Nel caso di Bin Laden l’eliminazione è arrivata con la formula militare che coniuga intelligence, droni e forze speciali perché ha consentito di operare sul terreno di un Paese alleato come il Pakistan a dispetto dei suoi servizi segreti, considerati infiltrati da elementi jihadisti. Si è trattato dunque di un’operazione tutta americana mentre nel caso dell’intervento in Tripoli la scelta è stata di puntare sull’accoppiata fra legittimazione internazionale – la risoluzione Onu, il sostegno della Lega Araba e l’intervento della Nato – e il sostegno ai ribelli con metodi non tradizionali come l’addestramento da parte delle forze speciali, la forniture d’armi giunte da Paesi alleati e l’impiego delle più sofisticate apparecchiature di intelligence per suggerire alle tribù berbere quando iniziare l’assalto finale verso la Piazza Verde di Tripoli. Nel caso della Siria la formula a cui si affida l’amministrazione Obama è un’altra ancora: nessun intervento militare ma massiccio sostegno all’opposizione interna grazie a gioielli della tecnologia come le valigette che consentono di creare reti Internet capaci di sfuggire alla sorveglianza del regime, nella convinzione che il movimento di protesta interna contro Assad ha dimensioni tali da aver determinato una «cambiamento di rapporti di forza sul terreno», come li definisce William Burns, vice del Segretario di Stato Hillary Clinton, riferendosi all’indebolimento degli apparati di sicurezza del regime.

L’unico tassello che accomuna l’operazione-Siria della Casa Bianca a quella libica sta nel costante lavorìo diplomatico per accrescere l’isolamento del dittatore con un misto di sanzioni nazionali, multilaterali e, quando possibile, delle Nazioni Unite. La differenza di approcci alle crisi presenti nel mondo arabo-musulmano può fa apparire l’amministrazione Obama incerta, ambigua e in contraddizione ma per Rhodes e Burns la coerenza sta nella «direzione di marcia» ovvero la decisione di mettere alle strette gli avversari dell’America ovunque si trovano, facendo leva sui mezzi pragmaticamente disponibili. Questo approccio ha il vantaggio di rendere Obama imprevedibile per i suoi avversari, che spesso lo sottovalutano, andando incontro a errori fatali. Bin Laden era sicuro di poter sfuggire alla caccia dei droni, Gheddafi pensava di fare tranquillamente strage degli abitanti di Bengasi e Assad ha continuato a promettere candidamente «riforme» mentre ordinava di sparare ad alzo zero sulle manifestazioni di piazza. Il risultato è uno scacchiere arabo-musulmano dove gli avversari dell’America che Obama ha ereditato da George W. Bush sono in questo momento caduti o sulla difensiva. Con l’eccezione dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad che ha avuto successo nel reprimere le proteste e continua ad inseguire l’atomica. Ma alla Casa Bianca assicurano che l’«indebolimento di Assad investe l’Iran» usando un linguaggio da effetto-domino, seppur non dichiarato.

La Stampa 24 .08.11

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“La polizia del mondo”, di Adriano Sofri

Quasi sei mesi: sembravano senza fine, e ora passano per brevi e rapidi. In soli sei mesi, dice Obama, si è abbattuto un regime che durava da 41 anni. In questi mesi ciascuno dei protagonisti occidentali ha vacillato, soprattutto per le pressioni interne. Ma a quel punto una ritirata che si rassegnasse alla permanenza di Gheddafi al potere, anche solo della Tripolitania, sarebbe stata catastrofica. Per Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, per le Nazioni Unite, e soprattutto per la gente che si era ribellata.Augurarselo era affare di irresponsabili o di nemici così superstiziosi dell´arroganza occidentale da simpatizzare per la tirannide sanguinaria di un buffone. A fomentare la superstizione non mancavano i motivi, a cominciare dalla confidenza che tanti governi occidentali avevano accordato al buffone sanguinario. In Italia, quando era sbarcato coi pennacchi e arruolato le belle da 80 euro a lezione di Libretto Verde; a Parigi, dove aveva piantato la tenda a palazzo Marigny, e a B-H. Lévy che lo chiamò terrorista in visita di Stato, Sarkozy replicò: «Ci sono intellettuali che prendono il caffè in Boulevard Saint Germain, danno lezioni, ma non si sporcano le mani e non prendono rischi». Ne trassero conseguenze diverse, dal momento che alla feroce repressione del Raìs, Berlusconi farfugliò: «Non lo voglio disturbare», e Sarkozy decise di farla finita con lui, e di fare di Lévy il suo battistrada.
Bisognerà ammettere che il progetto – il sogno, se preferite – di una polizia internazionale esce molto contraddittoriamente da questa prova. L´autorizzazione del Consiglio di sicurezza – a un passo dall´invasione punitiva contro la ribelle Bengasi – è stata largamente oltrepassata dall´azione degli alleati maggiori e della Nato. La protezione dei civili è diventata l´abbattimento del regime. La contraddizione è largamente inevitabile nel sistema di relazioni internazionali. Chi mira a sottrarvisi escludendo ogni intervento di forza fuori dai confini della cosiddetta sovranità nazionale rischia di farsi complice, attivo o per omissione, di crimini immani. La controprova sta solo nel fatto compiuto.
Che cosa sarebbe accaduto della popolazione indifesa di una grande città come Bengasi, di lì a qualche ora? Sarebbe accaduto o no quello che Gheddafi e i suoi ferocemente giuravano? Non si sarebbe parlato di Srebrenica se Srebrenica fosse stata prevenuta, né del Ruanda se si fosse impedito il meticoloso indisturbato sterminio. Il mondo aveva una dichiarazione universale dei diritti, e almeno in una sua parte (mancano perfino gli Stati Uniti) si è dotato di un Tribunale Internazionale. Non di una polizia capace di un´efficacia universale e anche solo larga. Immaginate uno Stato in cui i tribunali non contino su una polizia efficace; o uno Stato in cui i criminali vengano affrontati solo se non siano troppo potenti. Succede, direte: ma almeno bisogna concordare che non debba essere così. In Libia si è intervenuti per una serie di cause. A qualcuno il massacro iniziato e quello annunciato sarà pesato, speriamo. Obama voleva mostrare di stare dalla parte della primavera nordafricana. Sarkozy era impopolare, e veniva da una sequela di figuracce, in Costa d´Avorio, in Tunisia – dove la sua ministro degli Esteri faceva vacanza durante la ribellione ventilando la collaborazione della gendarmeria francese con Ben Ali. Sarkozy forzò la mano: la Lega Araba, il Qatar, gli Emirati, gli tennero dietro. Arrivò a proclamare l´impegno giacobino della Francia «ovunque siano minacciate la libertà dei popoli e la democrazia». Altri, fra i regimi musulmani della regione, oscillavano fra l´arruolamento e la paura che toccasse a loro. Caduti Tunisia ed Egitto, la Siria di Assad resisteva e resiste, al costo di migliaia di vite spente a cannonate, e la resistenza di Gheddafi era il suo puntello principale: ora lo perde. Perché, obiettano gli antinterventisti di principio, in Libia sì e in Siria no? Per il petrolio? Ma Gheddafi era per noi il più affidabile dei benzinai. In Siria sì, vorrei dire, benché ne veda la difficoltà. E allora, perché in Libia sì e in Siria sì, e nella Cina del Tibet o degli Uiguri no? Perché la forza possiede ferocemente il mondo, ed è già molto riuscire a limarle le unghie, e strapparle il nome di diritto. La polizia internazionale costretta a usare i mezzi spropositati della guerra piuttosto che quelli proporzionati alla legge e al fine, e che deve fermarsi davanti a un criminale troppo potente, ha un solo esito, prima o poi: la guerra mondiale. E bisognerebbe tenerla in considerazione, coi tempi che corrono, l´eventualità che torni attuale la vecchia sporca nozione di guerra mondiale. I mezzi: la prima condizione che le Nazioni Unite si affrettano a decretare al momento di intervenire è che «non ci sarà alcuna azione di terra». Non ho competenze militari e tecniche, ma il ritornello dell´esclusione di ogni «azione di terra» è un feticcio ingiustificato, e anche odioso. La “comunità internazionale” agisce dall´alto dei cieli – l´apoteosi dei droni, che cancella ogni fisionomia umana – e lascia per definizione la terra ai suoi abitatori, alle ciabatte e le raffiche della gente dabbasso. Oltretutto è una finzione: hanno calcato la terra di Libia istruttori e forze speciali di più paesi. Ma in questa scissione di cielo e terra c´è un falso rispetto della gente di un posto, una falsa idea di invasione, come se invadessero solo i piedi sul suolo, e non le macchine nell´aria. Fu così in Kosovo, dettaglio (!) che rese odioso un intervento giustificato. Non si può decidere una volta per tutte, ma quella scelta dall´alto è lontana da un´azione di polizia, e più ancora da un´azione che voglia essere preventiva e di interposizione. E i mezzi della guerra, con la loro smisuratezza, conducono spesso a protrarre la violenza e a moltiplicarne le vittime. Prevenzione e interposizione sono rare, benché siano il cuore di ogni governo delle cose. E questo può riguardare anche le persone singole. Sorriderete se insinuo che l´amicone italiano di Gheddafi avrebbe potuto anche andarlo a disturbare di persona, a Tripoli, a dirgli che non era bene mandare aerei e carri armati contro il suo popolo, e provare a farlo ragionare. Non era possibile nessuna di queste cose, né che il pazzo di Tripoli ragionasse, né che l´amicone italiano andasse a provarci. Se ne può trarre una conclusione, su chi sta al governo là e qua.
I nemici di principio di ogni “ingerenza”, i beffatori dell´aggettivo “umanitario”, abusato sì, ma non al punto di bandirne l´uso, avvertono anche sull´esito cui ogni intervento è destinato a condurre: nella Libia di oggi, a un gheddafismo senza Gheddafi, o a un´avanzata islamista. È possibile, probabile. Ma c´è una possibilità che non sia così, e ci riguarda. E intanto la ribellione è avvenuta, e che la gente che grida: “We are freedom”, non sa bene l´inglese, ma sa che cosa spera. Ho visto dei consuntivi che assegnano la liberazione della Libia per il 70 per cento alla Nato, per il 20 ai ribelli, per il 10 alla defezione della cerchia del capo. «Siamo liberi», abbiamo gridato da noi nel 1861, o nel 1945: la percentuale straniera era stata molto forte, ma furono belle giornate.

La Repubblica 24.08.11