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«Nella classe dirigente del futuro», di Gianni Toniolo

L’assistente di volo che, istruita da improvvidi esperti di pubbliche relazioni, annuncia che «l’atterraggio è avvenuto in orario» non mi rende orgoglioso del mio Paese. La puntualità dei voli dovrebbe essere normale, sta diventando più frequente, ma non mi pare un evento da celebrare. Ho gustato il bel film Il primo incarico, opera prima di Giorgia Cecere, ma non mi ha reso orgoglioso di essere italiano: trovo scontato che un grande Paese, con una non forte tradizione cinematografica, produca anche opere di ottimo livello. Un giovane e dinamico rettore sta rilanciando la mia Alma Mater, ne ha completato lo statuto, primo tra gli atenei italiani, ne ha messo in sicurezza il bilancio. Mostra che, malgrado i lacci e lacciuoli non diminuiti dalla legge Gelmini, si possono fare in poco tempo molte cose. Ne sono felice, ma questo non mi rende orgoglioso di essere italiano: non è il solo esempio di università che funziona e mi pare normale che così debba essere. Lo stesso vale per la Venice International University nell’isola di San Servolo, luogo di collaborazione tra università di tutto il mondo, punto di incontro tra cinesi ed europei: è un’idea originale, funziona bene, ha recuperato l’uso di un’importante isola della laguna. A suo tempo ho dedicato energie per farla nascere, sono contento che sia cresciuta bene ma va da sé che così debba essere: non mancano in un Paese come il nostro buone idee e buone istituzioni, ciascuno ne può elencare parecchie. Non bastano a farci sentire orgogliosi di essere italiani.

Insomma l’esercizio al quale talvolta ci si dedica di segnalare imprese con la tecnologia più avanzata del mondo, trasporti efficienti, impiegati pubblici che fanno il proprio dovere, scuole con punteggi Pisa molto più alti della media europea e numerosissimi altri esempi di un’Italia che funziona è opportuno nel clima di scoramento e pessimismo che ci circonda. Incoraggia a pensare, con Agostino d’Ippona, «se ce la fanno questi e quelle, perché non posso riuscirci anch’io?». È già molto ma, almeno per quanto mi riguarda, non trovo l’orgoglio di essere italiano nelle molte buone cose che normalmente, senza tante fanfare, si osservano – senza nemmeno cercare molto – in un Paese con la cultura, la civiltà e la storia (anche economica) quale è il nostro. L’orgoglio autentico viene dalle cose inaspettate, rare, difficili da trovare sotto cieli diversi dal nostro. Posso dire di essere stato orgoglioso della ricchezza culturale, della spontaneità, della diffusione capillare delle iniziative per la celebrazione del 150° dell’Unità. Ne posso offrire diretta testimonianza. Soprattutto mi ha inorgoglito la risposta, a volte davvero corale, a queste iniziative perché inaspettata dai più, anche da quei politici che dovrebbero, per mestiere, avere il polso del Paese. Ma di queste celebrazioni i giornali, anche questo giornale, hanno detto molto e non è il caso di ripeterlo ora.

Se torno con la mente agli ultimi dodici mesi, vi è un’iniziativa, sconosciuta ai più, alla quale ho avuto la fortuna di partecipare che mi ha reso orgoglioso e infuso speranza (le due cose, di questi tempi, vanno insieme). L’esperienza da me vissuta si è svolta, l’estate scorsa, a Camigliatello Silano (Cosenza) ma altre analoghe si sono tenute in località altrettanto ben scelte. Di che cosa si è trattato? Da moltissimi anni la Scuola Normale Superiore di Pisa organizza settimane di orientamento alla scelta della facoltà per gli studenti che hanno completato il quarto anno della scuola superiore. Sin qui nulla di eccezionale. Presentazioni delle facoltà si fanno in tutti i licei, in tutte le università, e consistono in genere in una descrizione più o meno burocratica dei programmi di studio e in un po’ di propaganda (sì: finalmente le università cominciano a farsi un po’ di concorrenza). L’idea geniale, che io sappia unica al mondo, della Normale consiste nel radunare studiosi di alto livello in tutte le principali discipline e chiedere loro, semplicemente, di tenere una tipica lezione universitaria. Nessuna presentazione di programmi e libri di testo né discussione dei possibili sbocchi professionali; solo lezioni, rigorose e difficili, come possono essere quelle di professori universitari seri, amanti del proprio mestiere. La partecipazione a queste settimane di “orientamento” è riservata, per concorso, ai migliori studenti del quarto anno di corso liceale o superiore. La selezione è molto forte (anche questo, se si vuole, è un aspetto “originale” dell’iniziativa, in un Paese nel quale la parola selezione fa spesso venire l’orticaria).

Arrivo, dunque, in piena estate, nel pieno cioè delle sacre vacanze per gli studenti promossi, al fresco di Camigliatello Silano, tra i pascoli e i boschi di pino larico del Parco nazionale della Sila. Dall’aeroporto di Lamezia il viaggio non è breve; l’ultima parte della strada è tortuosa, arrivo pertanto all’ora di cena. Nel ristorante dell’albergo, interamente requisito, trovo una pattuglia di professori universitari e un centinaio di ragazzi e ragazze. Mi siedo con questi ultimi. Mi aspettavo tipi un po’ secchioni e mi ritrovo tra giovani allegri, solo inizialmente un po’ intimiditi dall’adulto: fanno amicizia tra loro, scherzano, parlano delle proprie esperienze e dei propri progetti con un entusiasmo che fa bene ma non sorprende. La sorpresa arriva la mattina dopo. Alle nove sono già tutti in un’aula ariosa, ricavata in una masseria accuratamente restaurata, quaderni in mano o laptop aperti. Lezione di fisica: si può spiegare l’intero universo con una sola equazione? Il collega è bravissimo, di una chiarezza cristallina ma l’argomento non è dei più facili. Parla per un’ora. Vedo che l’attenzione non diminuisce ma sono un po’ scettico su quanto possano capire questi diciassettenni. Lo scetticismo evapora non appena inizia la discussione. Questi ragazzi, mi dico, hanno studiato la fisica meglio di me. Le domande sono precise, riguardano aspetti specifici, la verbosità generica è bandita. Avevo già partecipato, anni addietro in Toscana, a una simile settimana di “orientamento” della Normale. Ricordo ragazzi bravissimi, ma non quanto questi di provenienza prevalentemente meridionale. La sorpresa continua quando svolgo la mia lezione sull’economia dell’Italia nel cinquantennio post-unitario. Il livello di conoscenze che emerge dalle domande sull’unificazione del mercato, sulle tesi di Romeo e di Gramsci, sullo scandalo della Banca Romana è tale che presto la sorpresa lascia posto all’orgoglio. Questa competenza, questa serietà di studio, questo interesse non si trovano, che io sappia, facilmente altrove. L’iniziativa geniale della Normale trova piena rispondenza in una piccola straordinaria élite di ragazzi che io sappia normalissimi nella loro allegria, nelle loro speranze e nelle loro paure e al tempo stesso eccezionali per vivacità intellettuale, preparazione e interesse allo studio. Osando parafrasare il Poeta: «se non di questo, di che inorgoglirti suoli?».
Qualcosa, nei giorni successivi, ha lievemente velato il mio orgoglio. Non quello di vivere in un Paese dove una scuola universitaria di élite si occupa in modo tanto intelligente di orientare gli studenti né quello, ancora maggiore, di riscoprire che il Paese produce tanti ragazzi eccezionali. La vena di tristezza si è insinuata nelle conversazioni a tu per tu e in quelle collettive, durante i pasti. Le domande più frequenti riguardavano i posti migliori dove specializzarsi all’estero, soprattutto in vista di occupazioni, accademiche e non, oltre confine. Alcune università italiane, ne sono convinto, stanno migliorando; crescono le iscrizioni di studenti stranieri. Troppo poco, troppo lentamente perché se ne diffonda la percezione, perché i super-bravi scelgano di restare in Italia? Il nostro mercato del lavoro riesce ad attrarre i migliori, i ragazzi che ho incontrato a Camigliatello Silano?

da www.ilsole24ore.it

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