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"Dal 25 aprile al 2 giugno quando le date sono dei simboli", di Guido Crainz

Rappresentano la pienezza della democrazia e il suo essere una conquista continua. Sono giornate fondamentali anche per il significato che hanno assunto nelle diverse fasi della vita italiana. Spostare le ricorrenze civili non può essere una misura anti-crisi: nelle emergenze è necessario celebrare (e non sminuire) un pilastro dell´identità collettiva. Lascia senza parole una discussione sui “tagli sostenibili” che infila fra la (mancata) riduzione degli sprechi della politica e le (mancate) misure contro gli evasori anche lo spostamento – e quindi l´appannamento, la perdita di rilievo – di festività che fondano la nostra identità collettiva: il 25 aprile, il I° maggio, il 2 giugno. Dovrebbe essere esattamente il contrario. È proprio la drammatica emergenza che viviamo, è proprio l´infuriare di venti che possono essere devastanti a imporre il mantenimento, e semmai il rafforzamento, di riferimenti solidi, di bussole decisive.
Per averne conferma non occorre spinger lo sguardo molto all´indietro, sino al I° maggio celebrato clandestinamente da piccolissimi gruppi di lavoratori anche durante il fascismo. Qualcuno li considerò con sufficienza degli irrimediabili nostalgici, non era così. Si lasci anche da parte quello straordinario passato, si rifletta però su quello che le tre date, nel loro stretto rapporto, hanno rappresentato nella storia della Repubblica: in primo luogo la pienezza della democrazia e il suo essere una conquista continua.
Si pensi alle celebrazioni del 25 aprile. Negli anni della “guerra fredda” furono in parte oscurate o ridotte a riti ufficiali senz´anima dai governi “centristi”, restando segno distintivo della sola sinistra (con le conseguenze negative che questo ebbe). Si affermarono poi con forza – sia pur con qualche retorica – grazie al superamento di quel clima, dopo le grandi mobilitazioni antifasciste del luglio ‘60 e nel vivo di un “miracolo” che non fu solo economico ma anche civile. E si spogliarono anche della retorica fra la fine degli anni sessanta e l´inizio degli anni settanta, quando il riemergere di stragi e trame neofasciste sembrò evocare fantasmi lontani. Negli anni ottanta il rilievo pubblico del 25 aprile scemò di nuovo, anche per l´agire di potenti spinte alla cancellazione della memoria, alla “riappacificazione morbida” con il passato (e sin con il passato fascista), ma il suo valore non scomparve. Lo si vide il 25 aprile del 1994, quando una folla immensa accorse a Milano anche per indignazione e sdegno, all´indomani della vittoria elettorale di una coalizione che comprendeva anche gli epigoni – allora non pentiti – del neofascismo. A ben vedere, inoltre, dietro una ricorrente avversione al 25 aprile non vi è solo la “politica”: quella data è lì a ricordare che ci fu un´Italia che seppe scegliere. Che seppe pagare di persona per le proprie idee e per il bene comune anche quando tutto sembrava perduto.
Allo stesso modo il 2 giugno ci ricorda che l´Italia lacerata e piagata del dopoguerra seppe trovare la forza morale e politica per risollevarsi. Per ricostruire non solo case e cose ma anche l´anima, la ragion d´essere della nazione. “Era un giorno bellissimo… Quando i sentimenti neri mi opprimono penso a quel giorno e spero” scriveva Anna Banti, evocando anche la conquista del voto alle donne. Così nacque la Repubblica: “senza eroici furori, senza deliri di grandezza”, per dirla con Corrado Alvaro, ma capace di costruire il futuro. Fu “un miracolo della ragione”, come scrisse Piero Calamandrei, che trovò continuazione e conferma nella Costituzione: quella Costituzione che periodicamente torna ad essere il bersaglio polemico di poco affidabili innovatori. “Congelata”, negli anni della “guerra fredda”, perché apriva troppo apertamente la via ad una piena democratizzazione: “rischia di diventare una trappola”, disse un ministro ultraconservatore come Scelba. E “una trappola”, un ostacolo da rimuovere appare oggi al populismo antidemocratico di Berlusconi.
Anche in questo caso non vi è solo il valore storico di una data, vi è il significato simbolico che essa ha assunto nelle diverse fasi della nostra storia. È diventata un essenziale baluardo di difesa, ad esempio, quando i venti della frantumazione hanno iniziato a spirare fra le macerie del Palazzo e fra le lacerazioni di un Paese che stava smarrendo la fiducia in se stesso. Ed è iniziato da essa lo straordinario impegno del presidente Ciampi volto a ridare valore alla nazione. Volto a far riscoprire a tutti, anche ai più riottosi, quale straordinaria risorsa essa possa essere. È lo stesso impegno del presidente Napolitano, che ha anche ricordato con insistenza e forza a un´Italia troppo spesso immemore il valore del lavoro e la sua talora drammatica realtà. Ha ricordato che lavoro e diritti sono architravi della democrazia: e questo è appunto il significato del I° maggio. Anche gli appannamenti di quella data rimandano da noi agli anni più bui della “guerra fredda”, con le profondissime divisioni sindacali e le migliaia di lavoratori licenziati solo perché iscritti alla Cgil o a un partito di sinistra. Con un clima di arbitrio padronale cui posero fine la ripresa dell´iniziativa sindacale, la difficile – e incompiuta – costruzione di unità, la conquista dello Statuto dei lavoratori (una vera pietra miliare). Anche di questo si iniziò a perder consapevolezza negli anni ottanta, e oggi l´irrilevanza dei diritti è diventata pane quotidiano di un centrodestra (e talora di un sindacalismo subalterno) che non ha neppure le giustificazioni ideologiche della “guerra fredda”.
No, non è passatismo esigere che il valore di quelle date sia oggi esaltato e non umiliato. Non è volger lo sguardo al passato: è, come sempre, sperare nel futuro.

La Repubblica 25.08.11

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“Quella storia in una piazza”, di Miriam Maffai

“E, su tutto, lo sventolio/ l´umile, pigro sventolio/ delle bandiere rosse. Dio!, belle bandiere/degli Anni Quaranta!/ A sventolare una sull´altra, in una folla di tela/ povera, rosseggiante, di un rosso vero/ che traspariva con la fulgida miseria/delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie…”
Così Pier Paolo Pasolini ricordava un suo Primo Maggio con quello sventolio, quel primo orgoglioso sventolio delle bandiere rosse, fino allora sconosciute ai più giovani, tenute nascoste da vecchi militanti socialisti, in qualche soffitta o in qualche cantina (spesso assieme ad una vecchia immagine di Matteotti). Anche allora, tuttavia, anche durante i venti anni del fascismo, quando la festa del Primo Maggio era stata cancellata d´autorità dal calendario, anche quando erano ormai fuori legge le organizzazioni operaie e contadine con le loro sedi, i loro giornali, le loro bandiere, anche allora c´era qualcuno che festeggiava per conto suo con la famiglia e qualche amico quella data, e persino qualcuno che riusciva a far sventolare, su una isolata ciminiera, una isolata bandiera rossa.
Poi, tutto cambiò. Come Pasolini, anch´io ricordo «l´umile, pigro sventolio/ delle bandiere rosse…» che salutò il comizio del Primo Maggio del 1945, a Roma. Piazza del Popolo si era andata gonfiando lentamente dei cortei disordinati, impolverati, felici che arrivavano, cantando, dalle a noi sconosciute borgate ai limiti della città, dalle più lontane e miserabili periferie, sventolando una selva disordinata e un po´ stracciona di bandiere rosse. L´unico mezzo di trasporto allora regolarmente in funzione in città erano le camionette. E anche quelle arrivavano in piazza a fatica scaricando famiglie intere, ma soprattutto ragazze e giovani in festa, incuriositi, che volevano, per la prima volta nella loro vita, sentire e vedere un comizio. E il comizio ci fu. (Parlarono, se non ricordo male, Giuseppe Di Vittorio, Oreste Lizzadri e Achille Grandi, i tre segretari dell´allora unita CGIL).
Solo pochi giorni prima, il 25 Aprile, c´era stata, al Nord l´insurrezione. La guerra era finita. E in quel Primo Maggio su tutte le piazze d´Italia venne celebrata la Festa del Lavoro, che un disegno di legge firmato da Mussolini nel 1923 aveva abolito.
Singolare storia quella delle grandi feste operaie. Il 1 Maggio, festa dei lavoratori, come l´8 Marzo, festa delle donne, non ricordano infatti una vittoria ma una strage dalla quale si intende ripartire per portare avanti una giusta battaglia. Così l´8 Marzo, che ancora si celebra, ricorda le operaie di una fabbrica tessile di New York morte in quel giorno del 1908, nel tentativo disperato di uscire dalla fabbrica in cui avevano dichiarato lo sciopero, ma nella quale le porte erano state bloccate. Così la data del 1 maggio, scelta nel 1889 dal Congresso della Seconda Internazionale come giornata di lotta per chiedere la riduzione della giornata lavorativa ad otto ore venne scelta in ricordo del massacro di tre anni prima, quando a Chicago la polizia aveva sparato su una pacifica manifestazione operaia facendo un numero imprecisato di vittime.
Ognuno di noi ricorda e celebra, in famiglia, alcune date che gli sono care, confermando così una identità che si tramanda per generazioni. Lo stesso deve accadere a livello collettivo. Cancellare dal nostro calendario la festività del Primo Maggio, come si minaccia, comporterebbe una mutilazione della nostra storia e identità collettiva.

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“Il calendario della comunità”, di MARC AUGÉ
Pochi oserebbero modificare il calendario delle tradizionali feste religiose, mentre per le feste civili gli spostamenti sono tutto sommato semplici, accettati, anche se non privi di rischi. Questo si spiega in parte con la difficoltà di costruire una sacralità laica di fronte a una sacralità trascendente, un problema già evocato da Emile Durkeim all´inizio del secolo. Sappiamo per certo che ogni presa di potere si caratterizza, dal punto di vista simbolico, con il tentativo di dominare lo spazio e il tempo, laddove l´elezione di luoghi emblematici è certamente più agevole di quella che vuole consolidare date comuni e condivise da tutti. Ne ha ampiamente scritto Jacques Le Goff citando l´esempio dei campanili. Per la Chiesa il controllo del tempo non avviene solo attraverso il calendario, ma anche con la cadenza delle singole ore.
La componente temporale soggiace a ogni rito e mito. Dalla rivoluzione francese in poi ci sono stati diversi esperimenti di calendari laici, talvolta sovrapposti a quelli già esistenti delle stagioni. Già allora i rivoluzionari si sono scontrati con il limite del mimetismo nei nomi e nelle ricorrenze istituite. Soltanto i russi sono riusciti con qualche successo a calendarizzare la loro presa di potere, creando numerose feste civili massicciamente partecipate e seguite. Eppure neanche questo tentativo è sopravvissuto nel tempo, abbiamo visto che è scomparso con la fine dei regimi. La sacralità laica è spesso fragile. Senza riferimenti religiosi, il sacro può trovare fondamento solo nella storia e nella coscienza comunitaria.
Di questo tentativo di secolarizzazione della misura del tempo, rimangono per lo più le feste nazionali, come elemento sociale originario. La celebrazione della prima volta assume un ruolo essenziale nell´immaginario di una comunità. La festa civile è appunto legata a un evento storico preciso, alla temporalità, a differenza di una festa religiosa o alla ricorrenza di un santo, che si legano al concetto dell´eternità. Questa ritualità laica non significa solo una mera ripetizione in date prefissate. In ogni festa nazionale è implicitamente racchiuso, un messaggio di ripartenza per l´intera collettività. Per l´Italia è il passaggio alla Repubblica il 2 giugno, dopo la seconda guerra mondiale, in un periodo di entusiasmo popolare. Per i francesi è il 14 luglio, con il ricordo della rivoluzione e le importanti riforme seguite, anche se alcune poi smentite o in parte cancellate nei periodi successivi. Se queste date non esprimono sempre un percorso lineare, è importante scorgere la doppia dimensione delle ricorrenze: la conferma di una fedeltà a un valore e della sua forza fondativa.
Parlo volutamente di atto fondatore perché una festa nazionale è definita come tale soltanto se è condivisa dalla maggioranza di una comunità. Non tutti gli eventi storici possono infatti trasformarsi in una festa civile. Se non c´è questa base, la ricorrenza perde lentamente significato fino a scomparire. Ogni festa deve superare la contraddizione tra identità individuale e collettiva. Non a caso, la festa nazionale è, a seconda dei paesi, un esperimento non sempre riuscito, talvolta ignorato o frainteso. Ma la decisione italiana di spostare la data di una o più feste civili rischia di colpire profondamente la simbologia di una nazione e dovrebbe perciò essere respinta. Così come nessuno accetterebbe di avere il suo compleanno spostato di qualche giorno.
(testo raccolto da Anais Ginori)

La Repubblica 25.08.11