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"Amazzone o sposa bambina, essere donna in Libia", di Renzo Guolo

Rispetto al tempo della monarchia senussita, il lungo regime di Gheddafi ha fatto registrare un miglioramento nella condizione femminile. Nel delicato campo del diritto di famiglia ha elevato l´età matrimoniale impedendo il fenomeno delle spose-bambine; imposto la registrazione delle nozze; condizionato il matrimonio poligamico al consenso della prima moglie; stabilito l´intervento del giudice per convalidare il divorzio. Le donne possono votare, gestire i loro beni personali, avere accesso all´istruzione, lavorare. Anche se sono indirizzate a fare le insegnanti o le infermiere. Professioni che il Colonnello, che pure ha ammesso donne nell´esercito traendovi la sua guardia di “amazzoni”, definiva “consone”. Scelte che hanno fatto dire retoricamente a Gheddafi che le «donne sono trattare meglio Libia che in Occidente».
Come spesso accade nel mondo della Mezzaluna, però, le leggi fanno i conti con la tradizione. Le norme “modernizzanti” hanno trovato forti resistenze fuori dai centri urbani. Il diritto consuetudinario o il riferimento alla shari´a hanno spesso prevalso. Nella sua politica di divide et impera, in una realtà in cui il potere tradizionale delle tribù conta, Gheddafi ha smorzato ogni velleità di modernizzazione. Così è rimasta la consuetudine che vieta a una donna di espatriare senza l´autorizzazione scritta del marito; in certe aree la poligamia è ancora praticata senza vincoli; la violenza domestica diffusa e lo stupro non sono repressi con durezza. Nelle aree più remote confinanti con l´Africa subsahariana resta pratica corrente la mutilazione genitale. Quanto all´istruzione, se in città buona parte della popolazione studentesca è composta da femmine, nei villaggi rurali il tasso di analfabetismo delle giovani è altissimo e le donne continuano a vivere segregate. Sapranno i Paesi occidentali, che tanto hanno fatto per sostenere il cambio di regime, far pesare la loro influenza a favore dei diritti delle donne nella nuova Libia? O il rispetto dell´”identità e della tradizione” invocato dai nuovi governanti prevede ancora una volta il silenzio?

La Repubblica 27.08.11

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“Le ragazze di Ghiran che fanno la rivoluzione con le loro canzoni”, di Meo Ponte

“Non siamo topi come dici tu, siamo quelli che ti faranno mangiare la morte” Asma, Aisha, Najat si danno ogni sera appuntamento sotto casa degli ultimi lealisti. Le ragazze della rivoluzione si incontrano all´incrocio del quartiere di Ghiran, nella parte ovest della città. Ogni sera dopo l´iftar, la cena del Ramadan. Asma, 30 anni, porta il tamburo con cui sua madre accompagnava le canzoni tradizionali. La sua amica le poesie che ha appena scritto e il registratore con l´incisione del nuovo inno nazionale. La più piccola del gruppo ha appena tredici anni e si avvolge nel tricolore rosso, verde e nero ricavato da tre sciarpe.
Sono una ventina le ragazze di Ghiran che si radunano per cantare gli inni vecchi e nuovi della rivoluzione davanti alle finestre dei ultimi sostenitori di Gheddafi nel rione. Come le sorelle Aisha e Najat che, durante il regime, arrivarono a denunciare come «anti-governativo» il marito della terza sorella che era venuta a far loro visita per presentarglielo. Da quando è scoppiata la rivoluzione le due sorelle lealiste sono uscite di casa una sola volta e per andare dagli Abougascia, un´altra famiglia lealista che abita in fondo alla strada. «Uno dei figli ha ucciso un uomo anni fa e senza motivo ma è stato in prigione per soli tre giorni. Il padre era ben inserito con il regime. Diceva di conoscere il libretto verde a memoria. Il cognato delle due sorelle invece è sparito senza aver fatto nulla», dice Asma.
Le ragazze della rivoluzione non vogliono vendette ma solo poter dimostrare che ora non si deve più tacere, che si può dire quello che si vuole, che il tempo di Gheddafi è finito. La fanno cantando la sera davanti alle porte sbarrate di chi invece è ancora disperatamente fedele al raìs. Intonano il nuovo inno nazionale che poi è quello che si cantava dopo la colonizzazione e che Gheddafi aveva soppresso appena al potere. Non erano nemmeno nate quando in Libia risuonavano quelle note ma le hanno imparate a memoria e ora le cantano insieme ai nuovi slogan e a canzoni nate poche settimane fa. Come quella composta per i ragazzi del quartiere che sono morti nelle prime battaglie e che recita: “Il nostro paese ci chiamava e noi abbiamo risposto all´appello. Mamma non piangere che mio fratello un martire. Ha risposto all´appello per salvare il paese e il nostro popolo…”.
Le più amate però sono quelle scritte con una rabbiosa ironia come quella composta sull´onda dell´indignazione per uno dei discorsi di Gheddafi nei primi giorni della rivoluzione. «Parlando in tv aveva detto di essere amato ovunque nel paese e nel mondo e aveva chiesto ai rivoluzionari chi erano. Ricordo bene quella domanda: “Chi siete voi?”. Gli abbiamo risposto con una canzone che cita tutte le città che si sono rivoltate contro di lui…», spiega Asma. E ora le ragazze della rivoluzione cantano: “Non sai chi siamo noi? Noi siamo cavalieri non topi come ci hai chiamato tu, noi siamo quelli di Misurata che ti hanno rotto il naso, noi siamo Nalut e Zawria che ti faranno mangiare la morte, noi siamo Felan che tu, fifone, hai circondato per paura…”.
Le ragazze di Ghiran quattro giorni fa hanno iniziato a cantare a Tajura, una città poco lontana da Tripoli che lentamente è stata fagocitata dall´espansione della capitale diventandone un fashloum, un quartiere. «A Tajura sono sempre stati più liberi che in qualsiasi parte di Tripoli» spiega l´amica di Asma. Lì hanno urlato a squarciagola e sino allo sfinimento Shaeshoufa maleshi, ci dispiace ricciolone, uno slogan che fa riferimento alla capigliatura del raìs e che è il più in voga ora tra i ragazzi. E poi quando la rivoluzione è gradatamente arrivata sino alla piazza Verde sono andate a cantare negli altri quartieri.
L´altra sera erano di fronte alle finestre della famiglia Abougascia, rigorosamente sbarrate. Con Asma e le amiche c´erano anche bimbi e mamme, ragazzi appena tornati dal fronte di Abousalim con le canne degli Ak 47 ancora calde. Hanno cantato e ballato, urlato Shaeshoufa maleshi mentre i giovani towar sparavano in aria qualche breve raffica e guardavano i traccianti rossi attraversare il cielo buio. Da dietro le finestre chiuse e illuminate dalla luce fioca originata dal generatore nessun commento. Solo una frase sfuggita per l´esasperazione prima di spegnere anche l´ultimo lumicino: «Scimmie». Stasera le ragazze della rivoluzione canteranno ancora. L´appuntamento è all´incrocio di Ghiran.

La Repubblica 27.08.11