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"La vita come un colossal di Hollywood", di Lucia Annunziata

L’impressione è che siccome gli Americani devono essere primi in tutto, abbiano deciso di anticipare anche il calendario Maya, battendo di un anno la fine del mondo, altrimenti prevista dall’antico ciclo degli dei latinoamericani e dai moderni stregoni di Hollywood per il «2012» – titolo di un blockbuster cinematografico che già nel 2009, con prodezze computerizzate, dava conto della distruzione del pianeta.

La pellicola mostrava un devastante terremoto a Los Angeles, la cancellazione via mare di New York e l’esplosione della Casa Bianca, anticipatamente abitata rispetto alla data reale, da un Presidente nero. Difficile non fare riferimento al cinema, parlando della paura che attraversa la East Coast in queste ore. Arte quintessenzialmente americana, che tutto muove, tutto prepara, tutto commuove, tutto anticipa – e tutto rende finto. Ascoltando gli annunci e le conferenze stampa, le preparazioni e gli scenari, non si sa se correre a prendere un fucile (ci sarà un evento catastrofico dopo, o no? No, quello è un altro film, e riguarda un disastro nucleare) o mettere nel microonde i pop corn. Con questa tipica schizofrenia, fra realtà e fantasia, la stessa New York si è preparata infatti all’evento. Venerdì sera, ultima sera prima dell’evacuazione, la città era piena di chi si faceva un ultimo cinema, un’ultima birra e, viste le cancellazioni di chi lasciava la Grande Mela, trovava finalmente i biglietti per il musical «The Book of Mormon» che a Broadway è un enorme successo (e chissà? sarà perché ben due dei candidati alle prossime elezioni sono mormoni?). Il litorale è stato popolato da surfisti in cerca dell’onda da tempesta tropicale fino all’ultimo minuto, tanto che quel bullo del governatore del New Jersey, Chris Christie, nella sua conferenza stampa ha gridato ai suoi concittadini: «E’ inconcepibile questo atteggiamento! Alzate il c… e lasciate libera quella spiaggia!».

Difficile, in verità, mantenere un senso di realtà quando nulla avviene con banalità, e in Usa, si sa, ogni cosa prende dimensioni spropositate, inclusa la concatenazione degli eventi. Quante volte capita che un Paese sperimenti prima un terremoto, poi mentre ancora sta rimettendo in ordine il caos provocato dal terremoto nei trasporti e nei servizi, arrivi tra capo e collo un uragano tropicale per cui bisogna «evacuare» qualcosa come un milione di persone, e badare alle ricadute del maltempo su vari milioni di cittadini?

Lo scenario peggiore
Un infernale girone di sfortune, non c’è dubbio, coincidente quasi perfettamente con il decimo anniversario dell’attentato dell’11 settembre 2001, punteggiato da infernali dubbi sull’economia, collassi finanziari come quello del 2007, con la gente con scatoloni da evacuazione (causa licenziamento, in quel caso), e nuovi crolli di Borse, fino al grande timore del default dell’intero Stato americano. Nulla è mancato in queste ultime ore per definire il peggiore scenario: c’è stata persino l’evacuazione d’urgenza del Presidente, con tutti i rituali passaggi di corteo di limousine nere, elicotteri rombanti e corsa contro il tempo. Il Presidente – guarda la coincidenza – era in vacanza a Martha’s Vineyard, isola presa essa stessa di mira dal ciclone. Ma il senso di déjà-vu non deve farci sottovalutare la portata di quel che sta succedendo. C’è sempre molto di profondamente politico – nel senso di formazione del comportamento pubblico – in quel che succede negli Stati Uniti, e il caso dell’uragano Irene non fa differenza.

Il mito del Bene che vince il Male
Il fatto è che la Paura è un mito quintessenzialmente americano, funzione e propulsore di altri miti che costruiscono, con una serie di passaggi concatenati, la struttura stessa del discorso pubblico: la vittoria sulle forze del male, siano esse del regno politico, oppure naturali e, anche, soprannaturali. Il giovane Stato della prima rivoluzione della storia moderna nasce all’insegna della sua estrema fragilità. La sua affermazione avviene attraverso la dialettica continua fra una minaccia e il superamento di questa minaccia. Il pericolo sono gli indiani per i primi coloni, poi gli inglesi per i primi ambiziosi fondatori, poi ancora la natura per gli espansionisti della Grande Frontiera, e i nazisti e i comunisti per la Grande Potenza, e via via tutti i volti presi dall’impetuoso sviluppo di un Paese che ha guidato un secolo: le possibili deviazioni della scienza, la mancanza di scrupoli delle corporazioni, il risentimento degli esclusi, l’odio interrazziale, i complotti di potere. Hollywood, che di questa società costituisce l’Io letterario, non a caso si impossessa di queste paure, e narra la rigenerazione cui il loro superamento conduce. C’è molto di politico, dunque, in queste ore recenti di paura, nella enorme preparazione al disastro incombente di cui lo Stato si è fatto protagonista: in poche ore abbiamo visto un Presidente, Barack Obama, un sindaco, Michael Bloomberg, quattro Governatori di altrettanti Stati della Costa orientale, e un infinito numero di commissari cittadini (alla sicurezza, all’energia, all’assistenza eccetera) competere per ottenere spazio alle loro conferenze stampa in diretta televisiva. L’uragano Irene ha costituito l’occasione per l’apparato statale di mostrare la sua efficienza, i suoi muscoli, e per dimostrare ai cittadini la giustezza del voto che gli avevano offerto. Quel che è più rilevante (specialmente per un europeo) è che a questi annunci è seguita una massiccia mobilitazione di uomini e mezzi che nel giro di poche ore hanno aperto rifugi, messo in sicurezza le fogne, l’energia, e tolto il pedaggio (cosa non da poco) a tutti i trasporti pubblici per non far pagare l’evacuazione alla popolazione.

L’incubo di Katrina
Preparativi che si riveleranno quasi di sicuro eccessivi. Ma in qualche modo anche questo eccesso ha una natura politica. Nella memoria della classe dirigente americana è infatti rimasto scolpito un nome: uragano Katrina. In quel caso, nel 2005, si fece poco o nulla, e quel poco, anche dopo che i venti e le acque avevano spazzato via mezza New Orleans, venne fatto in ritardo. Il Presidente George W. Bush pagò quella sottovalutazione più della guerra in Iraq. Una lezione che nessun politico, a partire dal Presidente, ha dimenticato. Anche perché combattere un uragano è infinitamente più semplice che invertire il corso di una grave crisi economica.

La Stampa 28.08.11