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"Beslan abita ancora sulle tombe dei suoi figli", di Mark Franchetti

Piangenti e vestite di nero, migliaia di persone in lutto si riuniranno oggi alla scuola di Beslan per commemorare il settimo anniversario del più grave attacco terroristico mai avvenuto in Russia. Porteranno fiori e bottiglie d’acqua, un modo simbolico per ricordare la sete sopportata dai loro cari nelle ultime ore prima della morte. Un rintocco di campana segnerà il momento, poco dopo mezzogiorno, quando il 3 settembre 2004 si udirono due potenti esplosioni all’interno della palestra della scuola dove più di 1200 ostaggi – gli allievi, i loro genitori e gli insegnanti – erano da 52 ore in mano ai terroristi islamici.
Nel massacro che seguì morirono 333 persone – tra cui 186 bambini. Diciassette bambini persero entrambi i genitori e 72 sono rimasti gravemente disabili. In un solo blocco di appartamenti vicino alla scuola si sono contati 34 bambini tra le vittime. In un paese così piccolo, quasi tutti hanno perso una persona cara o conoscono qualcuno che l’ha persa.
Sette anni dopo Beslan, con i suoi 35.000 abitanti, è tranquilla, provinciale e rurale. Ma a differenza delle grandi città che hanno sofferto terribili atti terroristici su larga scala come New York e Mumbai, Beslan è ancora un luogo dove quasi tutta la popolazione è segnata da profonde cicatrici emotive collettive. Per molte delle famiglie di coloro che morirono nella scuola la ferita resta aperta: ora come sette anni fa sono arrabbiate per l’evidente mancanza di volontà delle autorità d’indagare adeguatamente sull’attacco terroristico e rivelarne tutte le verità nascoste. Incredibilmente, sette anni dopo, sono ancora in attesa della conclusione ufficiale dell’inchiesta aperta sull’accaduto. La chiusura dell’indagine è stata rinviata più di trenta volte. Un lungo rapporto del Parlamento pubblicato cinque anni fa è stato respinto dai cittadini di Beslan come un tentativo di insabbiare la vicenda perché non è riuscito in alcun modo ad attribuire una qualche responsabilità al governo russo.
Nel 2005 Nurpashi Kulayev, un falegname ceceno disoccupato, l’unico terrorista catturato vivo, è stato condannato all’argastolo. Si pensa che, contrariamente alle assicurazioni delle autorità, alcuni terroristi siano riusciti a fuggire. Un processo nei confronti di tre funzionari di polizia locali accusati di negligenza si è concluso con l’amnistia senza che gli imputati testimoniassero in pubblico. Non un solo funzionario dello Stato si è dimesso o è stato licenziato come conseguenza del peggior attacco terroristico della storia russa. Al contrario, alcuni alti ufficiali locali della sicurezza sono stati promossi. E questo nonostante il fatto che gli avvertimenti della polizia su un imminente attacco terroristico, fatti due settimane prima del sequestro della scuola, non avessero portato ad alcun rafforzamento delle misure di sicurezza.
Perché le segnalazioni sono state ignorate, si chiedono ancora senza avere risposta molte famiglie delle vittime? Perché i russi non riuscirono nemmeno a negoziare con i terroristi e quali concessioni era pronto a fare il Cremlino? E, soprattutto, chi o che cosa causò le due fatali esplosioni che hanno portato al massacro?
Per tutto il tempo dell’assedio le autorità russe hanno mentito sul numero degli ostaggi, affermando che erano solo 300. I terroristi fecero i nomi di quattro alti funzionari dello Stato con i quali volevano parlare ma alla terza mattina del dramma nessuno di loro si era presentato alla scuola. Frustrati, i membri del commando che avevano già ucciso numerosi uomini prigionieri e li avevano gettati fuori da una finestra – smisero di dare da bere agli ostaggi. I prigionieri, nel caldo soffocante, finirono per bere la propria urina.
«Di chi è la colpa per la morte di tanti bambini?», ha chiesto Susanna Dudiyeva, che ha perso suo figlio di 13 anni, Zaur, e ora è a capo del comitato Madri di Beslan, che sta facendo pressioni sulle autorità per avere risposte. «Per me diventa più difficile ogni anno perché più passa il tempo, più penso a come mio figlio morto sarebbe stato adesso», racconta. E aggiunge: «Questa è una città profondamente traumatizzata, dove molti uomini si sono dati al bere dopo la tragedia perché non potevano far fronte al senso di colpa e alla sensazione di aver tradito i propri figli morti. Questo non sarà mai più un posto normale. Io per prima non riesco a venire a patti con la morte di mio figlio. È per questo che mi batterò fino alla fine per la verità». Dudiyeva ha incontrato sia Vladimir Putin sia Dmitry Medvedev, suo successore alla presidenza, ma sente che entrambi i leader l’hanno illusa.
Sospesa nel tempo, la scuola è ancora come dopo il massacro, al tempo stesso memoriale e simbolo struggente delle divisioni della città. Gli ex ostaggi e i familiari delle vittime sono ancora divisi su cosa si debba fare dell’edificio attorno al quale quest’anno è stata costruita una struttura commemorativa. Molti pensano che avrebbe dovuto essere abbattuto, altri si piazzerebbero letteralmente di fronte al bulldozer per salvarlo.
Grandi chiazze carbonizzate sul pavimento in legno della palestra segnano ancora chiaramente il punto dove alcuni degli ostaggi sono morti bruciati nel rogo seguito all’esplosione. Tutto intorno, ordinatamente disposti in file sulle pareti annerite e crivellate di proiettili della palestra, sono appesi i ritratti delle vittime. Fiori e ghirlande, candele e peluche circondano la palestra, insieme alle bottiglie di acqua minerale e a lattine di bibite lasciate in memoria dei bambini morti assetati perché i terroristi negarono loro l’acqua. Le pareti sono coperte di messaggi scritti a mano, versi e poesie che piangono i morti. Una grande croce ortodossa di legno si erge al centro della palestra. E’ un luogo straziante e commovente.
Il senso di colpa dei sopravvissuti ha avuto un effetto velenoso sulla psiche della città. I genitori sono perseguitati dalla sensazione di aver tradito i loro figli morti, i giovani sopravvissuti devono fare i conti con la morte di fratelli e amici, così come con l’onnipotente culto della personalità che hanno lasciato in eredità. In alcuni casi i genitori, senza volerlo, dimostrano più amore per il loro bambino morto che per quelli vivi.
Nonostante le tensioni e le divisioni, la gente di Beslan ha mostrato notevole capacità di recupero, dignità e autocontrollo. I timori che il dolore della città potesse risolversi in una sanguinosa vendetta non si sono avverati. In sette anni, più di 50 nuovi bambini sono nati nelle famiglie colpite dalla tragedia. Elena e Yuri Zamesov hanno avuto tre maschietti dopo la morte dei loro figli, Natalia, di 12 anni, e Igor che ne aveva dieci. «Avere altri bambini ci ha regalato gioia e ci ha un po’ distratti, ma non ha in alcun modo diminuito il mio dolore», dice Elena. «Dicono che il tempo guarisce. La verità è che peggiora le cose. Mi pare di impazzire quando mi immagino quello che i miei figli hanno passato in quei tre giorni. Solo chi ha perso un bambino può davvero capirci».
Ma ci sono altri, come Kaspolat Ramonov che ha perso sua figlia quindicenne, Marianna, e ha dedicato la sua vita a custodirne il corpo. Alla lettera. Dopo la sua morte, Ramonov vegliò la tomba della figlia giorno e notte, in una sezione speciale del cimitero della città dove sono stati sepolti tutti i bambini uccisi nell’attacco terroristico, un luogo che ora viene chiamato «la città degli angeli» e dove praticamente ogni lapide è coperta di giocattoli. Iniziò pian piano ad occuparsidel cimitero fino a quando cinque anni fa è stato nominato ufficialmente suo custode. Conosce intimamente la storia di ciascuna vittima sepolta lì. Se una madre ha bisogno di lasciare la città per un paio di giorni, Ramonov parla alla tomba del suo bambino. «Non ti preoccupare, dico, tua madre tornerà presto e ti sta pensando», spiega. «Questo non è un lavoro», aggiunge. «Io vivo qui per badare ai bambini».

La Stampa 03.09.11