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"La situazione è semplice e disperata", di Francesco Guerrera*

Cernobbio è blindata. Dai poliziotti sommozzatori nel lago di Como agli agenti del Mossad con giacche che a malapena celano i muscoli, ai ragazzotti italiani con auricolari troppo visibili, i magnifici giardini di Villa d’Este formicolano di guardie del corpo dei tantissimi vip. Ma i veri pericoli sono dentro la villa, nei saloni sontuosi dove capi di Stato ed economisti discutono dell’epidemia di crisi che si sta diffondendo attraverso il globo. Contro problemi come questi, poco possono i muscoli del Mossad. Il tono lugubre al simposio annuale organizzato dall’Ambrosetti House l’hanno dato, come spesso in questi ultimi mesi, gli Stati Uniti.
Venerdì, mentre economisti di lusso come Nouriel Roubini, il guru della crisi finanziaria del 2008, Martin Feldstein di Harvard ed il nostro Mario Monti si interrogavano sulle sorti del mondo, è arrivata la notizia bomba dagli Usa: in agosto il mercato del lavoro americano non ha creato nessun posto di lavoro.

Nemmeno uno o due posticini, zero.
A questo punto, parafrasando la frase dei prestigiatori di un tempo, la contrazione economica c’è anche se non si vede nelle rilevazioni ufficiali della Federal Reserve.

Dopo quel dato straordinario – la prima volta in quasi un anno che l’occupazione americana è a crescita-zero – gli economisti sono corsi a riscrivere le loro previsioni con inchiostro rosso. Roubini, che era già pessimista prima, ha detto che le probabilità di un «doppio tuffo» nella recessione nei prossimi mesi sono ormai più del 60%, prima di ammonire un po’ tutti che la sperequazione dei redditi statunitensi potrebbe portare a disordini sociali.
Ma non c’è stato tempo di soffermarsi sui problemi d’oltre-Atlantico. Sulle terrazze di Villa d’Este, nelle pause tra le sessioni, si è parlato più dell’Europa ammalata che della vista mozza-fiato che probabilmente ispirò Manzoni: colline verdeggianti che si tuffano in un ramo del lago di Como.

Le onde lambiscono i muri della villa ma i vip di Cernobbio l’acqua se la sentono alla gola e sanno bene di chi è la colpa: una classe politica che sta facendo finta di niente mentre il Titanic dell’euro affonda.
Il presidente della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet ha chiesto, anzi implorato, Giorgio Napolitano di far sì che la manovra promessa dal governo italiano venga passata il prima possibile. I mercati non possono più attendere, bisogna dargli qualcosa, anche se sono misure pasticciate, raffazzonate come quelle promesse da questo governo distratto e confuso.

Il Presidente, collegato via satellite su uno schermo in cima al podio dell’Ambrosetti, è sembrato quasi una figura messianica: ci siamo messi tutti col naso in su a guardarlo, sperando che dicesse la cosa giusta. E Napolitano il garante l’ha fatto, tentando di rassicurare il banchiere francese che non ci saranno più sotterfugi, mezze promesse e bocciature: l’Italia si rimboccherà le maniche e stringerà la cinghia anche perché, ormai, non c’è alternativa.
Con i tassi d’interesse dei buoni del Tesoro alle stelle – lo sberleffo dei mercati al principio di un’unione monetaria che prometteva tassi uniformi da Atene a Helsinki, gli investitori stanno votando con i soldi: l’asse dell’euro è sotto pressione estrema e potrebbe rompersi da un momento all’altro.

Purtroppo, le professioni di austerità provenienti dai Paesi a rischio – i poveri Piigs, i porcelli europei di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – non sembrano aver convinto gli imprenditori e investitori che ho accostato nelle hall di Cernobbio.
Il capo di un’azienda industriale enorme, con migliaia di dipendenti in mezzo mondo, mi ha spaventato ieri mattina quando mi si è seduto vicino a colazione e mi ha chiesto: «Ma tu ci capisci qualcosa? Io sono proprio confuso». «Ma se non lo sai lei…», ho farfugliato, cercando di nascondere il mio smarrimento.

Questa è la congiuntura economica a cui devono far fronte aziende grandi e piccole: incertezza totale sulla direzione delle economie americane ed europee e sfiducia ancora più totale nella classe politica che le deve gestire. Il risultato è un’attesa che piacerebbe a Beckett. E mentre si aspetta non si assume e non si investe.

Trichet, come il collega americano Ben Bernanke lo ripete ormai da mesi: le banche centrali non hanno più munizioni, il pallino è in mano ai politici.
Ma invece di cercare soluzioni, i governi litigano, dimostrando in maniera drammatica, e forse letale, i limiti di un’unione monetaria che non è stata accompagnata da un’unione fiscale e politica.

Le beghe nazionali, i calcoli meschini di politica interna, hanno pregiudicato l’euro sin dall’infanzia. Non ci dimentichiamo che nel 2003, furono proprio la Germania e la Francia (con la complicità della presidenza italiana dell’Unione Europea) ad infrangere le regole serie del Patto di Stabilità, il bastione che avrebbe dovuto proteggere la moneta unica e garantire la probità fiscale dei Paesi membri. Non ci furono sanzioni ed il messaggio fu chiaro a tutti: l’Ue non prende il rigore economico seriamente, il laissez-faire è la nuova regola del gioco.

E’ un’ironia amara che siano proprio Germania e Francia oggi ad ergersi a giudici della situazione europea. Ed è ancora più sgradevole che le due potenze che misero le prime mine sotto l’edificio dell’euro strumentalizzino la geografia per spiegare i malori dell’euro: il Sud prodigo contro il Nord parsimonioso.

Nord e Sud sono ugualmente colpevoli ed accuse come queste, con ammicchi ad elettori in cerca di un capro espiatorio, non rinforzeranno né l’euro né la fiducia dei mercati.
A tre anni dall’ultimo tonfo, siamo di nuovo sul baratro o, come mi ha detto un imprenditore a Cernobbio, «siamo sospesi come Wyle il Coyote prima di accorgersi che sta in mezzo al canyon».

Non tutto è perduto ma la posta è altissima. In momenti come questi, i manager aziendali parlano di «piattaforma infuocata» – il momento di crisi che finalmente costringe i leader a prendere decisioni e i dipendenti a seguirli.

Negli Usa, sulla piattaforma c’è Obama ma, purtroppo per lui, i repubblicani controllano l’idrante. Lo stimolo fiscale – spese di infrastrutture, piani per stimolare l’occupazione, incentivi per gli investimenti d’impresa – non arriverà prima delle elezioni del prossimo anno. Il Presidente della speranza deve ora sperare che la disoccupazione cali o rischia di passare da nuovo Kennedy a nuovo Carter.

In Europa, le scelte sono ugualmente difficili. Un’integrazione maggiore, sia dal punto fiscale che da quello politico è inevitabile per prevenire la catastrofe dell’implosione dell’euro.
Ma la decisione passa per la Germania, che riceverà sia il conto sia le redini per progettare un’Europa più unita. Se gli elettori tedeschi non se la sentono di pagare o il resto del continente soccombe a paure storiche sul potere teutonico, i mercati potrebbero prendere decisioni drastiche sul futuro dell’euro.

E per l’Italia? La situazione è sia più disperata sia più semplice. Non c’è via d’uscita: bisogna agire ed agire subito, con misure concrete e riforme radicali.
Come dicono a Cernobbio quando i dibattiti stanno per finire: «Time is up» – «Il tempo è scaduto».

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal

La Stampa 04.09.11