attualità, economia

"Contro la crisi si può fare di più", di Valerio Onida

In queste settimane siamo bombardati dalle considerazioni e dalle proposte che gli esperti di economia formulano sulla crisi italiana e sui rimedi praticabili. Le manovre si succedono a ritmo frenetico, e quel che si capisce bene sono solo i veti e le resistenze di questo o di quello su ogni possibile intervento, con un effetto finale di confusione e di scarsa equità. Da “cittadino incompetente” vorrei provare a mettere in riga alcune semplici e magari semplicistiche riflessioni capaci di orientare il giudizio che, alla fine, anche gli elettori, non solo i “mercati”, dovranno dare sulle scelte compiute o non compiute.
Una cosa l’abbiamo capita bene: il debito pubblico che ristagna intorno al 120% del Pil è una palla al piede che il Paese non può ulteriormente permettersi. Il problema è come ridurne l’entità. Ci dicono che la via maestra sarebbe l’aumento del Pil (la famosa “crescita”) con ritmi che, nel volgere degli anni, ridurrebbero l’incidenza relativa del debito, pur costante in termini assoluti, se si riesce nel frattempo a evitare un nuovo disavanzo annuale. Ma poi ci spiegano che molte delle misure che riducono la spesa pubblica o che aumentano il prelievo fiscale sono destinate ad avere effetti contrari alla crescita del Pil. Sembra un circolo vizioso.
Il coro invoca la riduzione dei “costi della politica”: e va bene, era ora. Non ha senso che i parlamentari paghino i pasti al prezzo di una mensa operaia (a spese delle Camere). Ma tutti sappiamo che se anche smettessimo da un giorno all’altro di pagare compensi a tutti i titolari di cariche elettive, o abolissimo queste ultime, avremmo ridotto di poco il problema finanziario (e, forse, avremmo ridotto anche il tasso di democrazia del Paese: attenzione, prima di entusiasmarsi per i dimezzamenti delle “poltrone”, senza domandarsi quali dovrebbero essere i rapporti numerici congrui fra rappresentanti e rappresentati!).
Eliminare gli sprechi? È sacrosanto (in genere, però, sono visti come “sprechi” solo i soldi spesi per altri, non quelli spesi per interventi che finanziano le nostre imprese o le nostre famiglie). Ma poi, combattuti gli sprechi, siamo sicuri di volere (e che sia accettabile) uno Stato che riduca ancora la spesa per l’istruzione, per la salute, per l’assistenza sociale a chi ne ha bisogno, per la cultura?
L’incompetente allora si domanda: c’è un’altra strada per abbattere il debito pubblico o il suo onere eccessivo? Lo Stato potrebbe vendere beni (o asset, come oggi si dice), salvo poi trovarsi impoverito di strumenti e risorse per perseguire i suoi scopi (che non sono solo quello di mantenere l’ordine pubblico). In ogni caso non sembra una strada semplice né rapida (intanto, però, si cedono gratuitamente alle imprese televisive frequenze dell’etere, che sono un bene pubblico limitato). Oppure si potrebbe chiedere ai cittadini di contribuire una tantum ad abbattere il debito, secondo la logica per la quale “lo Stato siamo noi”, e quindi, se lo Stato ha un fabbisogno straordinario, noi dobbiamo concorrere a colmarlo.
Ci hanno spiegato a lungo che la forza dell’Italia, nella claudicante economia dei Paesi sviluppati, era che noi abbiamo sì un grande debito pubblico, ma relativamente poco debito privato, e cioè i cittadini hanno un patrimonio netto (beni meno debiti) più cospicuo che altrove. Bene, allora perché non si chiede ai cittadini titolari di questo patrimonio di sacrificarne una piccola parte ciascuno, in progressiva proporzione all’entità del possesso individuale, per consentire allo Stato di ridurre significativamente il suo debito, vuoi attraverso un prelievo straordinario, vuoi attraverso un prestito, spontaneo o “forzoso”, da restituire a lungo termine e a interesse inferiore a quello che i “mercati” pretenderebbero? O immediatamente, o in prospettiva, per effetto della riduzione degli interessi, l’onere del debito pubblico diminuirebbe.
Subito si leva il coro: altre tasse, per di più sul patrimonio? Vade retro! Lo Stato ha fatto il debito, lo Stato lo ripaghi. Com’è noto, quando una persona s’indebita troppo rispetto alle sue possibilità economiche, o fallisce subito o finisce nelle mani degli strozzini, che gli prestano sì nuovo denaro, ma a interessi sempre più alti (e alla fine fallisce lo stesso perché non è più in grado di rimborsare i debiti contratti). Nel nostro caso i prestatori sono i “mercati”, che di fronte alle difficoltà dello Stato alzano la misura degli interessi richiesti per continuare a finanziarne il debito. E dunque?
Non vorremmo che finisse come altre volte nella storia: il debito pubblico evapora come neve al sole perché, o con l’inflazione (se non dovessimo più avere la protezione dell’euro) o con la “ristrutturazione”, i titoli di Stato diventano carta straccia. Ci perderebbero i mercati, e poco male, visto che molti sono professionisti del rischio finanziario, ma ci perderebbero anche i cittadini normali che hanno investito tutti o parte dei loro modesti risparmi (pensando che lo Stato non è la Cirio né la Parmalat) in titoli di Stato: in quel debito pubblico che, come diceva lo Statuto albertino (la Costituzione repubblicana non lo ripete, ma in qualche modo lo presuppone) è – deve essere – «guarentito» (perché «ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile»).
L’unica cosa che dovremmo esigere è che alle “dolorose” operazioni necessarie presieda un Governo (sorretto da una maggioranza parlamentare più ampia possibile) degno di questo nome, cioè credibile.

Il Sole 24 Ore 09.09.11