ambiente, attualità

"Uscire dall´incubo con l´energia pulita", di Giovanni Valentini

Incidente risolto, allarme cessato. Ci risiamo ancora una volta. Dalla Francia all´Italia, l´incubo nucleare scavalca rapidamente le Alpi, diffondendo paure ancestrali. Ma evidentemente in questo campo le “lezioni” (come gli esami) non finiscono mai. Nella lugubre contabilità dei disastri causati dalla mano dell´uomo un morto e quattro feriti nel sito di stoccaggio delle scorie radioattive a Marcoule, vicino ad Avignone e al confine italiano, costituiscono un bilancio meno grave delle sei vittime provocate nella stessa giornata di ieri dallo scoppio nella fabbrica di fuochi artificiali a Frosinone, vicino a Roma. E probabilmente in entrambi i casi si tratta di fatalità, incuria, imprudenza. Non c´è dubbio, però, che lo spettro della nube nucleare evoca sempre dubbi e angosce più profonde, richiamando il rischio della catastrofe atomica che incombe – come una maledizione biblica – sulle sorti dell´umanità.
Saranno pure scorie o rifiuti quelli che si sono incendiati e hanno provocato l´esplosione nel sito a sud della Francia. E sarà pure vero, come si sono affrettati a distinguere i portavoce della lobby d´Oltralpe, che questo è “un incidente industriale” piuttosto che un incidente nucleare. Resta tuttavia la preoccupazione che quando si parla di sostanze radioattive nessuno sa mai bene qual è e quale può essere la portata dell´incidente, quali gli effetti e le conseguenze.
La tragica “lezione” di Fukushima insegna. La prima preoccupazione ricorrente in questi casi è quella di negare, smentire, ridimensionare, rassicurare, tranquillizzare. Eppure, l´esperienza ancora recente del disastro giapponese ammonisce che quando si ha a che fare con i danni prodotti dall´energia atomica le cautele non sono mai troppe, le precauzioni e i controlli non bastano mai.
Ma, al di là del suo eventuale impatto effettivo sul territorio e sulla salute della popolazione, l´”incidente industriale” di Marcoule ripropone un problema di sicurezza che non riguarda soltanto la Francia o, per la sua vicinanza, l´Italia, bensì l´intera comunità europea. All´indomani del disastro di Fukushima, molti Paesi – a cominciare dalla ricca e potente Germania – annunciarono un´immediata verifica dei propri impianti, la chiusura di quelli più obsoleti e comunque la riduzione dei loro programmi nucleari o addirittura l´uscita definitiva. È tempo ormai di passare dalle parole ai fatti e anche qui di mantenere gli impegni.
La svolta della “green economy”, a favore dell´energia pulita, non è più rinviabile. Né l´Occidente progredito ed evoluto può legittimamente pretendere dai Paesi emergenti il rispetto dei parametri o degli standard ambientali, se non è in grado di dare il buon esempio adottando un modello di sviluppo virtuoso e sostenibile: cioè compatibile con la sopravvivenza del genere umano. Lo “spread” finanziario fra i titoli di Stato rappresenta senz´altro un valore importante di cui tener conto, ma quello energetico e quello ecologico non sono certamente da meno: altrimenti, si fa dumping, concorrenza sleale.
In questa direzione, il Belpaese può ambire a svolgere un ruolo di orientamento e di guida. Abbiamo il più alto debito pubblico d´Europa, ma abbiamo anche il più grande patrimonio storico e culturale del mondo. E abbiamo, soprattutto, le maggiori risorse naturali e paesaggistiche del Vecchio Continente. A Bruxelles il nostro presidente del Consiglio dovrebbe andare, magari senza sottrarsi ai magistrati che chiedono di ascoltarlo sulle sue vicende giudiziarie personali, non solo per difendere doverosamente i nostri interessi economici, ma anche per rivendicare autorevolmente il primato di un´identità nazionale che appartiene a tutto il popolo italiano.
La questione energetica, anche per merito del recente referendum contro il nucleare, fa parte integrante di questo discorso. Quella che in passato è stata erroneamente rappresentata come una nostra debolezza, un handicap, un´arretratezza, in realtà può costituire un punto di forza. E anche un motivo di legittimo orgoglio.
Dentro o fuori i confini dell´Europa, non c´è progresso senza sicurezza. Non c´è sviluppo senza rispetto per la persona umana. Coniata la moneta unica, dobbiamo introdurre ora l´energia unica, fondata sulle fonti pulite, alternative, rinnovabili.

La Repubblica 13.09.11

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“L´incubo delle discariche atomiche in Italia 300 ettari di scorie eterne”, di Antonio Cianciullo

La Ue ci impone di metterle in sicurezza entro il 2015. «AAA cercasi cimitero radioattivo per 80-90 mila metri cubi di sostanze radioattive». Il referendum dello scorso giugno ha sepolto il ritorno dell´atomo ma non ha potuto risolvere tutti i problemi accumulati in una breve stagione nucleare. In Italia non esistono impianti come quello di Marcoule, con il forno per la fusione di metalli a bassa radioattività. In compenso ci sono le scorie inviate all´estero per il cosiddetto ritrattamento (serve a ridurre i volumi ed estrarre l´uranio) che devono ancora tornare; quelle che devono ancora partire; quelle che devono ancora prodursi perché nasceranno dallo smantellamento delle quattro centrali nucleari chiuse dopo il referendum del 1987.
L´Italia combatte da tre decenni con il problema dei materiali contaminati dalla radioattività e la soluzione non si intravede ancora. Negli anni Ottanta avevamo cominciato a inviarli a Windscale, un centro di trattamento in Gran Bretagna che nel 1981 ha adottato il nome di Sellafield tentando di cancellare la memoria degli incidenti che si erano susseguiti. Stanno sempre lì e prima o poi si porrà la questione del rientro.
Nel 2007 è stato firmato un altro accordo, questa volta con la Francia che si è impegnata ad accogliere nel centro di La Hague 235 tonnellate di combustibile irraggiato. Il trasporto non è ancora completato: manca il 2 per cento delle barre che verrà spedito entro il prossimo anno. Il cammino di ritorno dei materiali – vetrificati, ma sempre radioattivi – dovrebbe avvenire tra il 2020 e il 2025.
Infine c´è il problema delle vecchie centrali, attorno alle quali non si è ancora spenta la protesta. In particolare a Trino Vercellese, con le sue scorie appena sette metri più alte delle acque del Po: una piena eccezionale potrebbe portarle via.
La Sogin, la società che ha il compito di gestire i rifiuti nucleari e lo smantellamento delle centrali, ricorda che entro il 2015, secondo la direttiva europea, dovrà essere pronto il piano per la messa in sicurezza dei depositi nucleari in cui affluiranno anche i materiali radioattivi provenienti dal circuito ospedaliero. Per costruire la discarica nucleare italiana servono 300 ettari poggiati su uno strato geologico impermeabile: si sceglierà tra una rosa di 50 candidati.
L´operazione è necessaria perché al momento i rifiuti radioattivi non hanno fissa dimora: in parte sono rimasti all´interno delle centrali; in parte vengono conservati in forma liquida a Saluggia, in un sito che – nonostante la costruzione di un muro di recinzione – è in una situazione resa precaria dalla vicinanza con la Dora Baltea e dalle frequenti inondazioni della zona.
Quando si riuscirà a risolvere il problema e quanto ci costerà? «Il decommissioning dei siti nucleari italiani, che realizzeremo entro il 2020, costerà 6 miliardi di euro: tutte le centrali spariranno e sui siti tornerà un prato», afferma Giuseppe Nucci, amministratore delegato di Sogin. «Si tratta di un progetto che ridurrà fortemente il rischio perché metterà in sicurezza materiali che oggi sono sparsi in siti non pensati per questa funzione».
«Scontiamo ancora gli errori del passato: portare i rifiuti radioattivi all´estero non solo non risolve in alcun modo la questione della sistemazione delle scorie, ma rappresenta una fonte di inquinamento e di rischio nucleare durante le fasi di trasporto», replica Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace. «Il ritrattamento serve non alla sicurezza ma a recuperare uranio e plutonio dalle barre esauste per creare nuovo combustibile o armi nucleari».

La Repubblica 13.09.11

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“La vita con la maschera dei bimbi di Fukushima”, di Ilaria Maria Sala

Con i suoi trecentomila abitanti, Koriyama, nella prefettura di Fukushima, è parte di un Giappone di provincia semi invisibile. Non c’è l’allegria di Osaka o gli splendori di Kyoto, non c’è la ricchezza culturale e materiale della metropoli tokyoita e delle città che la circondano: è un piccolo centro industriale che lavora, e che malgrado i suoi edifici moderni resta attaccato alla terra. Allontanandosi dal centro si passa da una periferia modesta alla campagna: siamo in una regione agricola, famosa per il riso e la frutta (le pere in particolare), e per la verità, poco altro. Una città che non cercava pubblicità.

Poi è arrivato l’11 marzo 2011, il terremoto, lo tsunami, e la distruzione della centrale nucleare di Fukushima Daiichi, e la schiva Koriyama si è ritrovata nell’occhio del ciclone. Il terremoto qui ha fatto un solo morto, ma si è lasciato dietro molti danni: oggi la maggior parte delle case troppo danneggiate per essere riparate sono state demolite, ma si vedono ancora edifici ricoperti di plastica che vengono rimessi in sesto, e dei cartelli attaccati alle porte con scritto «ispezionato». Se sono verdi, significa che l’edificio sarà salvo. Rosa, e verrà abbattuto.

Ma questo è niente. Quello che è grave, a Koriyama, è il trovarsi a 50 chilometri dalla centrale atomica esplosa: fuori dal raggio di evacuazione obbligatoria, fuori dalla zona più pericolosa, ma in un territorio ricoperto di «punti caldi», dove le radiazioni sono più alte del dovuto, e i rischi, per ora, un mistero che si cerca di penetrare malgrado la scarsità di informazioni disponibili. Koriyama è sufficientemente al sicuro da aver ricevuto 2000 sfollati che abitavano in prossimità della centrale, e che ora vivono in file di prefabbricati bianchi che emanano desolazione. Ogni tanto si notano gli adesivi che dicono «gambaré Fukushima!», qualcosa come «coraggio, Fukushima!».

Oggi i livelli di radiazioni, dopo aver raggiunto punte inquietanti in aprile, non dovrebbero presentare rischi per la salute degli adulti, ma i bambini, più sensibili alla radioattività, devono invece essere protetti. «Durante l’estate, tutti i cortili e i campi da gioco delle scuole sono stati “grattati”, per togliere il suolo di superficie che conteneva più materiale radioattivo», dice Anne Kaneko, amministratrice di un’azienda di cartone per imballaggi. «Di quanto? Non si sa: si pensa che sia di circa cinque centimetri, ma questa è una delle tante cose che non sappiamo con sicurezza. La terra grattata è stata messa in un angolo, e ricoperta con dei grossi teloni di plastica, fintanto che non si saprà cosa farne».

Un’operazione che migliora solo in parte la situazione, dal momento che i bambini più piccoli, in ogni caso, hanno il permesso di giocare all’aperto solo per un’ora al giorno. Tomoko Sakuta, maestra e madre di una ragazzina di otto anni, spiega che «ogni mattina, prima di far uscire mia figlia, guardo la televisione per controllare il livello delle radiazioni. Fino ai dieci anni, i bambini devono andare e tornare da scuola con una mascherina, per evitare di inalare particelle radioattive che potrebbero interferire con il loro sviluppo. Ho dovuto spiegare a mia figlia che non può toccare la terra, e nessuna pianta, che non si deve avvicinare al fiume che c’è dietro casa, che è pericoloso anche toccare un fiore. Mi sembra che mi ascolti», dice.

Per cercare di calmare l’inevitabile ansia, la prefettura di Fukushima ha organizzato durante l’estate degli incontri fra medici e genitori per spiegare quello che era successo e le possibili conseguenze: «Ma i medici non è che fossero esperti in queste cose. Erano stati chiamati a loro volta a Tokyo, per un seminario, e al ritorno ci hanno detto quello che avevano imparato», dice la signora Sakuta. «Prima del seminario, non sapevo che la bambina non dovesse toccare l’erba», sospira. Proprio mentre parla, la ragazzina torna da scuola, cappellino in testa e mascherina che le copre il volto. «Lo sai perché devi stare coperta?», le chiede la mamma. «C’è una cosa chimica nell’aria che fa male», dice la piccola, e scappa via buttando in terra mascherina e cappellino.

Per un’altra mamma la situazione è più complessa: «Io ho due ragazzi, uno di sette e l’altro di tredici anni. Ho l’impressione di star tenendo in gabbia dei grossi cani irrequieti, che sbattono contro le pareti per l’impazienza di uscire. Durante l’estate potevano uscire solo un’ora a settimana, le radiazioni erano più alte di adesso, e credevo che saremmo impazziti tutti. Adesso è consentita una passeggiata fino a un’ora al giorno».

Per tutte le mamme, poi, c’è l’ansia del cibo. Prima cosa ad essere stata eliminata, l’acqua del rubinetto, poi a seconda di quello che dice il giornale si evita un alimento o l’altro: «Qui, siamo sempre stati fieri dei nostri agricoltori, e adesso li vediamo andare in bancarotta. Vorrei sostenerli, ma se poi compro cose che fanno male alla mia bambina?», si chiede Sakuta, tormentata e sfiduciata. «Per i pasti scolastici, però, voglio fidarmi, non ho altra scelta: non tutti possono semplicemente partire», dice.

Altrove, non è così: come la signora Toshiko Yasuda, di Yokohama, che ha creato un gruppo di mamme che si oppone alla presenza di alimenti di Fukushima nelle mense delle elementari, l’Associazione per proteggere i bambini di Yokohama dalle radiazioni. Per ora la scuola, e il ministero dell’Educazione, sembrano indifferenti alla loro inquietudine ma, come dice il sito web dell’Associazione di Yokohama, non possono essere i bambini, o le loro mamme, a preoccuparsi del reddito dei contadini di Fukushima. Per ora, il governo non sta ascoltando.

La Stampa 13.09.11

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