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"Piccole scorie crescono: l’Italia e il rebus dei rifiuti nucleari", di Pietro Greco

È passato un anno da quando la Sogin – la società che si occupa della messa in sicurezza degli impianti nucleari italiani ancora in funzione e di quelli dismessi – ha consegnato al governo l’elenco dei circa 50 luoghi candidati a diventare il “deposito definitivo” dei rifiuti radioattivi. L’allora ministro ad interim dello Sviluppo Economico, Silvio Berlusconi, ordinò di tenere segreto l’elenco. Non disse perché. Sta di fatto che negli ultimi dodici mesi nulla si è mosso e ancora oggi non sappiamo quale sarà il futuro delle scorie nucleari del nostro Paese.
Non ne abbiamo molte, di scorie nucleari. Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ammontano a 27.500 metri cubi. Cui bisogna aggiungere un volume compreso tra 30.000 e 60.000 metri cubi che deriveranno da quello che i tecnici chiamano il decommissioning – sì, insomma,lo smantellamento – dei pochissimi impianti nucleari che abbiamo avuto attivi in passato e chiusi dopo il referendum del 1987. In totale, dunque, abbiamoun volume compreso tra 55.000 e 100.000 metri cubi di rifiuti nucleari da smaltire. Vero è che una parte proviene dagli ospedali o da attività sanitarie o da attività di ricerca e che questa parte aumenta di anno in anno. Ma si tratta di una piccola parte, 2.000 metri cubi o giù di lì, che cresce al ritmo di qualche decina di metri cubi l’anno. Insomma, la verità è che a un quarto di secolo dalla “fine del nucleare” in Italia il problema dei rifiuti è tuttora irrisolto. E le possibili soluzioni sono tenute segrete per volontà del governo. L’attenzione è quasi sempre rivolta ai rifiuti di III categoria, quelli cosiddetti ad attività alta: perché hanno una lunga vita (anche migliaia di anni) e detengono il 95% della radioattività complessiva. Ma questi rifiuti sono contenuti nel5%del volume. Mentre, pur contenendo il 5% della radioattività complessiva, quelli di II categoria – rappresentati da materiali contaminati di natura metallica (in genere ferro) o organica (garze, guanti, camici) – rappresentano il 95% del volume totale. In pratica, il piccolo grande problema italiano è non solo come smaltire poche migliaia di metri cubi di materiale altamente radioattivo, ma anche come smaltire una quantità non banale – 95.000 metri cubi – di materiali poco radioattivi.
Va da sé che, per quanto a bassa attività, questi rifiuti se dispersi, perunqualsiasi motivo, nell’ambiente lo contaminano. E, se si vogliono evitare effetti sulla salute umana, un ambiente contaminato da rifiuti radioattivi a bassa attività o deve essere evacuato per due o tre secoli o deve essere disinquinato, con difficoltà e costi piuttosto alti. Come si fa a smaltire questi rifiuti? O meglio, come si fa a smaltirli in sicurezza, ovvero con la ragionevole certezza che non si diffondano nell’ambiente? Non esiste un sistema economico per abbattere la loro radioattività e renderli innocui. Gli scienziati e gli ingegneri in tutto il mondo
consigliano una procedura che è diventata uno standard, in due fasi: La prima è quella del “condizionamento”. Che, tradotto dal gergo tecnico, significa provare a ridurre il volume del materiale ferroso e a bruciare il materiale organico, incapsulando le ceneri radioattive in cemento o materiali inerti. Dopodiché si individua un sito di superficie – il “deposito definitivo” – dove tenerli in sicurezza, in un contenitore di calcestruzzo piuttosto spesso e possibilmente interrato, per almeno 300anni e aspettare che la radioattività decada naturalmente e rientri nei limiti del fondo naturale. Per chi non ha molte scorie di III categoria e/o comunque è in attesa di individuare un “sito geologico”, collocato in una qualche cavità sotterranea in grado di ospitarli in sicurezza per i prossimi millenni, il sito di superficie delle scorie a bassa attività può candidarsi a ospitare per i prossimi 50 o 100 anni anche i rifiuti più attivi e pericolosi.
Come sta la situazione in Italia, in attesa che il governo ci dica almeno perché tiene segreti i nomi dei siti candidati? Beh, la situazione è questa.
Una parte del combustibile irraggiato ad alta attività è in Francia per essere condizionato. Ma un’altra parte dei rifiuti ad alta attività è presso il sito di Saluggia, in provincia di Vercelli, dov’è ospitato il combustibile irraggiato proveniente dalle centrali di Trino, Latina e del Garigliano e dove si concentra l’85% delle radioattività italiana.
Gli standard internazionali vorrebbero che questi siti, anche se provvisori, stiano molto lontani dall’acqua. Purtroppo il sito di Saluggia è a pochi metri dalla Dora Baltea e per questo è ad alto rischio: a un rischio, addirittura planetario, secondo la definizione autorevole del premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia.
Ma non bisogna dimenticare i siti che ospitano i rifiuti di II categoria, meno pericolosi ma più ingombranti. Non fosse altro perché la loro gestione ci costa dai 300 ai 400 milioni di euro l’anno che paghiamo noi tutti, magari senza saperlo, a rate bimestrali con la bolletta elettrica. La gran parte delle scorie a bassa attività si trova ancora nelle aree delle vecchie centrali da smantellare: Garigliano, Latina, Caorso, Trino Vercellese. Ma altri 26.000 metri cubi si trovano sparsi in decine di siti, in condizione di relativa sicurezza, a loro volta distribuiti in quasi tutte le regioni. Il più grande è quello Nucleco della Casaccia, alle porte di Roma: che da solo ospita oltre 6.000 metri cubi di scorie radioattive a bassa attività. Ma ci sono decine di altri siti, anche con pochi metri cubi di materiale radioattivo. Poche di queste scorie sono in condizione che possiamo
definire di massima sicurezza. Tutti sono in attesa di trasferimento. In attesa proprio come noi: che da oltre un anno vorremmo conoscere la lista dei candidati a sito definitivo e sceglierne, al più presto,uno in grado di ridurre il rischio di un incidente nucleare magari minimo, ma pur sempre – come è accaduto ad Avignone ieri l’altro – capace di evocare orribili fantasmi.

L’Unità 16.09.11