attualità

"Le colonie Usa e la lezione sul debito", di Marta Dassù

Echi della storia: distanti ma istruttivi. Il dibattito europeo sulla crisi del debito ricorda una delle dispute più accese della vita iniziale degli Stati Uniti. A un decennio circa dalla formazione dell’Unione (1781), il primo segretario del Tesoro americano, Alexander Hamilton, condusse la sua battaglia per trasferire a livello federale parte del debito accumulato dalle 13 colonie durante la guerra di indipendenza. Hamilton propose un piano in due fasi. La prima prevedeva appunto che il governo federale si accollasse il debito contratto dagli Stati. La seconda prevedeva la creazione di una Bank of America, un embrione di Banca Centrale. Queste proposte si scontrarono però – lo ricostruisce su Aspenia un articolo di «Germanicus» – con un’opposizione feroce. Contro di esse si mosse l’allora segretario di Stato Thomas Jefferson, uno dei padri della Dichiarazione di indipendenza. Le sue obiezioni erano di carattere costituzionale. Secondo Jefferson, il piano del segretario del Tesoro costituiva un’aperta violazione dei diritti degli Stati, a tutto vantaggio del governo federale. E soprattutto costituiva un pericoloso precedente: non vi era nulla, infatti, nella Costituzione che autorizzasse la creazione di una Banca degli Stati Uniti. Si tenga conto che quando il governo federale cominciò ad emettere banconote (solo a metà dell’800, per finanziare la guerra civile), la Corte suprema dichiarò in prima battuta incostituzionale l’emissione dei «biglietti verdi». Più che le obiezioni di Jefferson, era però l’opposizione di alcuni Stati ad ostacolare il piano di Hamilton.

Il più risoluto era la Virginia, Stato ricco del Sud che all’epoca includeva anche gli attuali West Virginia e Kentucky. Le sue finanze erano relativamente sane, e i suoi abitanti non avevano nessuna intenzione di pagare di tasca propria per le «scelleratezze» finanziarie dei puritani del Nord. La Virginia, alla fine, dette il proprio assenso al piano di risanamento. In cambio, però, ottenne da Hamilton la promessa che la capitale federale sarebbe stata spostata in un territorio ritagliato fra la stessa Virginia e il Maryland, sui terreni lambiti dal Potomac. Dove appunto sorgerà Washington. La collocazione del Campidoglio a poche ore di distanza dalle tenute patrizie della Virginia avrebbe simboleggiato la leadership politica dell’Old Dominion all’interno dell’Unione originaria. A parti geograficamente rovesciate (il Sud americano dell’epoca come il Nord europeo di oggi) e al di là di tutte le differenze (abbiamo già la Bank of Europe, senza avere una gestione federale del debito), le analogie con quel primo dibattito sono interessanti, se viste «across the Atlantic»; e non del tutto accidentali. Le difficoltà dei neonati Stati Uniti, così come quelle dell’Unione Europea, confermano infatti una «legge» molto semplice: in un’Unione di Stati ancora poco strutturata – come era l’Unione iniziale delle colonie americane e come è oggi l’Ue – si creano sempre forti tensioni distributive. Che possono essere superate, almeno temporaneamente, se gli Stati più ricchi e competitivi si assumono responsabilità commisurate al loro status, accettando di contribuire più degli altri al funzionamento dell’Unione. È quello che fece la Virginia, decidendo di barattare qualche Bot dell’epoca con una posizione di guida all’interno dell’Unione americana delle origini.

Nel caso dell’Unione Europea, questo ruolo può essere svolto solo dalla Germania. Ma Berlino appare restia a farsene carico. Negli Anni Novanta, una leadership tradizionalmente favorevole all’integrazione ha cominciato a mettere in discussione l’entità del proprio contributo netto al bilancio comunitario. Oggi, stigmatizza il rischio che l’Ue si trasformi in una costosa «Transfer-Union» respingendo proposte, come gli eurobond, che potrebbero alleviare le pressioni sull’euro. Si dirà: perché meravigliarsi se i tedeschi esitano a pagare per rimediare ai problemi altrui? È un’osservazione corretta in un’ottica contabile ma lo è meno in una visione strategica. La Germania è stata storicamente un grande contributore (il «paymaster», si sarebbe detto a Richmond) ma anche uno dei grandi beneficiari dell’Ue, traendone vantaggi tangibili sia sul piano politico che su quello economico. Berlino ne ha anche tratto vantaggi indiretti, immateriali: per esempio politiche regolatorie e standard che hanno quasi sempre finito col mutuare modelli tedeschi. Il punto vero in discussione è se questi benefici siano esauriti, o siano diventati inferiori ai costi, come sembra ritenere una parte dell’élite tedesca a più di due decenni dalla riunificazione del Paese. La risposta razionale è che non sia così. L’ormai famoso studio di Ubs sui costi di una spaccatura dell’euro dimostra che sarebbero molto superiori, per i contribuenti tedeschi, ai costi del salvataggio combinato di Grecia, Irlanda e Portogallo. Angela Merkel ne è sicuramente consapevole. Ma ha scelto di muoversi, dall’esplosione della crisi greca in poi, per piccoli passi, data la debolezza interna della coalizione di governo e visti i paletti fissati da una Corte costituzionale apparentemente più vicina all’eredità di Jefferson che non a quella di Hamilton. Il rischio è che questa logica politica gradualista, combinata a una visione economica che forza gli Stati in debito a misure drastiche di austerità, faccia saltare l’Unione monetaria prima di farla decollare come Unione politica.

Teniamo quindi conto degli echi della storia. La solidarietà fiscale è una delle battaglie fondative, una battaglia esistenziale, per le Unioni fra Stati. Può essere vinta solo a condizione che gli Stati più forti abbiano il coraggio di scelte costose ma vantaggiose: è il prezzo della leadership. D’altra parte, gli Stati più deboli devono a loro volta accettare vincoli sostanziali, costituzionali ma non solo, alle proprie politiche di bilancio, come avviene del resto in un assetto americano (la quasi totalità dei singoli Stati della Federazione si sono dati leggi più o meno strette sul «balanced budget») di cui stiamo prendendo alcuni pezzi ma non l’insieme. Questo è lo «scambio» originario della storia travagliata degli Stati Uniti. Vedremo se sarà lo scambio alla base del futuro europeo.

La Stampa 17.09.11