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"La Chiesa, il Cavaliere e il suo Doppio", di Gian Antonio Stella

Il Cavaliere, oltre che il premier, fa anche il cattolico «a tempo perso»? Le autorità vaticane sembrano aver scelto di tacere, per ora, su quel pollaio di finte infermiere e squillo russe e ballerine sudamericane che emerge dalle intercettazioni e che una delle ragazze coinvolte ha definito «un gran troiaio». Un silenzio assoluto.
Lo stesso Silvio Berlusconi, però, sa che il quadro delle sue notti brave con Gianpi Tarantini («Tu porta le tue, io le mie. Poi ce le prestiamo. La patonza deve girare…») rischia di guastare irrimediabilmente un rapporto con la Chiesa che aveva coltivato accuratamente. Giorno dopo giorno. Per anni.
Tutta la sua storia politica, coerentemente con la tesi di Don Gianni Baget Bozzo («ho sempre creduto nello Spirito Santo e considero Berlusconi come un evento spirituale») ha traboccato fin dall’inizio di messaggi, parole, rimandi religiosi. Nelle omelie elettorali: «Tutti dobbiamo diventare missionari, dobbiamo farci apostoli… Spiegheremo il vangelo di Forza Italia, il Vangelo secondo Silvio!». Nelle professioni di fede: «Sono religioso, cattolico praticante. Ho cinque zie suore e la domenica un mio cugino sacerdote viene ad Arcore a celebrare Messa nella mia cappella privata. Sì, mi comunico spesso. Anche perché se non lo faccio, mia madre mi chiama in disparte e mi rimprovera: “Cos’hai fatto a Dio, che oggi non hai preso l’ostia?”». Nelle interviste in cui spiegava gli incontri con Giovanni Paolo II: «Mi ha dato la sua benedizione. Ma con l’aria di pensare che non ne avessi un bisogno particolare». Negli annunci: «Il programma verrà presentato in dodici disegni di legge come le dodici tavole».
E via così, per anni. «Ho anche Sgarbi, nella funzione di San Giovanni Battista». «Ho detto: vade retro Satana a tutti i pastrocchi della Prima Repubblica». «Sui referendum mi rimetto serenamente al giudizio di Dio». «Berrò l’amaro calice di tornare a Palazzo Chigi». «Noi e Buttiglione abbiamo gli stessi ideali, la famiglia, il cattolicesimo, una posizione che si riflette nel magistero di Giovanni Paolo II». «Il male di questo Paese è che tutti guardano alle loro parrocchie, invece bisognerebbe stare attenti alla diocesi». A un certo punto confidò: «Io sono in collegamento continuo con lassù, mi aiuta il circuito delle zie suore». E rivelò: «L’altro giorno nella cappella di Arcore ho visto mia madre in colloquio diretto col mio angelo custode, con mio padre e anche con le zie che sono dall’altra parte: con accenti accorati li rimproverava di non aiutarmi abbastanza». E qualche giorno dopo a Maria Latella che gli aveva chiesto con un pizzico di irridente incredulità quali richieste facesse lui all’impalpabile protettore, rispose con un sospiro addolorato: «L’idea dell’angelo custode suscita la sua ironia, forse le sembra una cosa fanciullesca… E io sorrido con qualche amarezza per il disprezzo cosi poco laico per questa elementare dimensione della fede, per questo amore che noi cattolici portiamo agli agenti della Divina Provvidenza».
Quando andò a trovarlo l’inviato di Famiglia Cristiana, volle dunque trascinarlo a tutti i costi, di stanza in stanza, fino alla cappella. «Presidente, non serve, la mia è un’intervista politica». «I suoi lettori devono sapere». «Quando faccio la Messa ad Arcore», raccontò a un settimanale, «la chiesa si riempie di giovani. La religione spinge tutti noi a migliorarci, a tendere verso l’alto». Fino alla sortita più famosa: «Uno che arriva come me alla guida dell’Italia è come se fosse stato unto dal Signore». Di più: «Quando si assume un ruolo come questo, la vita cambia. I cattolici la chiamano la Grazia dello status. È una cosa che ti fa diventare una persona diversa senza che tu te ne accorga. Già stanotte ho dormito da persona diversa, anche se con lo stesso pigiama». E mano a mano che Don Luigi Verzé lo confortava nella convinzione d’essere stato scelto da lassù («l’ho sempre detto, Silvio è stato mandato dalla Divina Provvidenza per salvare questo Paese») il Cavaliere si lanciava nel racconto di parabole: «All’Ospedale San Raffaele una madre mi pregò di convincere il figlio bloccato provvisoriamente su una sedie a rotelle a riprendere a camminare. Mi presentai dal ragazzo e gli dissi: “Giacomo, fatti forza. Alzati e cammina”. Lui, dopo alcuni giorni, si alzò». Un prodigio. Come tanti altri. Che gli avrebbero strappato battute come quella con cui annunciò di aver trovato un punto d’accordo su Bankitalia: «San Silvio da Arcore ha fatto un altro miracolo». Fino alla sublimazione del celebre gesto nel salotto di Bruno Vespa, quando porse la mano all’incerto giornalista: «Annusi, annusi!». «Cosa devo annusare?». «È odore di santità». E tanto deve essersi convinto, nel tempo, di questa sua dimensione al di là dei due divorzi e di una vita, diciamo così, sessualmente spericolata, che un giorno dell’estate 2008, alla Messa per il nuovo campanile di Porto Rotondo, chiese al vescovo di Tempio Pausania: «Eccellenza, perché non cambiate le regole per noi separati e ci permettete di fare la comunione?». «Lei che ha potere, si rivolga a chi è più in alto di me», gli disse quello sorridendo. Il Papa, in qualche modo, gli rispose dal Quebec: «Coloro che non possono ricevere la comunione a motivo della loro situazione, troveranno comunque nel desiderio di comunione e nella partecipazione all’Eucaristia una forza e una efficacia salvatrice». Parole che avrebbe interpretato come un via libera. Facendo la comunione in pubblico almeno un paio di volte, ai funerali dell’alpino Matteo Miotto e a quelli di Raimondo Vianello. E adesso? Cosa faranno i vertici della Chiesa dopo aver letto quei dialoghi («Ieri sera avevo la fila fuori dalla porta della camera… Erano in undici… Io me ne son fatte solo otto perché non potevo fare di più») finiti su tutti i giornali del pianeta? Lo vedremo nei prossimi giorni. Ma certo, stavolta, se venissero confermate certe testimonianze, sarà difficile per lui spiegare che anche Nicole Minetti vestita in una notte brava con «una tunica scura da suora, compreso il copricapo ed una croce rossa sul velo» facesse parte del «circuito» delle zie monachelle.

Il Corriere della Sera 18.09.11

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“Il vocabolario della patonza”, di FRANCESCO MERLO

IN QUESTA fogna di parole «le bimbe» non sono più i pargoli di Gesù ma le ninfette. E Berlusconi non dice mai «donna», preferisce « patonza» che è il volgare banale e, vedrete, diventerà linguaggio d´epoca «la patonza deve girare», una frase abbagliante come un fulmine che illumina benissimo l´estetica e l´etica del berlusconismo e perciò gli sopravviverà. Un po´ come “la Corazzata Potemkin è una boiata pazzesca”, “Milano da bere” e “mani pulite”. Berlusconi infatti è il più trito turpiloquente di questa Italia con la patta sbottonata, non è D´Annunzio né Bukowski che cercava “la macchina da fottere”. E non c´è mai nel suo lessico da pelo che so?, una gazzella, un airone, un´aquila, solo «gnocca» , «due bambine piccole», «fica», e ovviamente «troia» che però è la femmina-merce che gli resiste, non importa se perché non le piace o perché vuole «prima vedere cammello». Insomma, ci sono tutti i consunti riflessi condizionati del pensionato dalla vita, quello che insegue le donne ma non si ricorda perché.
E a forza di bugie diventa sincero. «Erano in undici e me ne sono fatte solo otto» è, per esempio, la diminutio che certifica l´esagerazione, l´iperbole da barzelletta che svela il contrario di quel che declama. Entrambi, Berlusconi e Tarantini, sanno – ma non se ne curano – che quella menzogna rende trasparente l´impotenza, il bisogno di mangiare con avidità senza mai potersi saziare. «Avevo la fila fuori dalla porta» dice, come i seduttori flosci di Brancati che facevano ‘catenaccio´ nei bordelli e poi praticavano il gigantismo del sesso parlato. Berlusconi chiede «un caravan» di puttane, millanta prestazioni a mitraglia dicendo «non potevo fare di più, a certe cose non si può arrivare». Sembra davvero il romanzo postumo di Brancati sul sesso rianimato: «Stamattina mi sento bene, sono contento della mia resistenza».
Di sicuro è un tossico dipendente dinanzi al quale persino Tarantini, il pusher, sembra un ingenuo calvinista. Quella libidine sfrenata è troppo anche per lui. Tarantini gli parla per esempio di Francesca e Manuela «che è decisa, posso confermarglielo» ma, senza rendersene conto, lo mette in allarme dicendogli «per martedì ho preso un mezzo appuntamento».
Mezzo? Partono, sotto traccia, rimandi e metafore al fare le cose a metà e al mezzo uomo che raggiungono i nervi snervati di Berlusconi: «Vabbé, ma cosa facciamo una cena a quattro?». E qui Tarantini, che continua a non capire l´irritazione, smette per un attimo di truffarlo e lo affronta: «Sì, io preferirei di sì…, in pochi è meno imbarazzante». Leggetela bene l´immediata reazione di Berlusconi e immaginate il tono: «E poi? Il dopo come viene?» sbotta umiliandolo e richiamandolo alla durezza del suo mestiere di mezzana. «E poi…» il povero Tarantini cambia discorso.
Ecco, sono tanti i piccoli equivoci tra di loro: «E´ molto carina» dice Tarantini della merce. «Molto?» chiede Berlusconi che vuole più dettagli, vuole dar corpo a quel ‘molto´. Ma Tarantini crede che Berlusconi non ha sentito e ripete. «… carina». Il punto è che le sole divagazioni che gli sono consentite sono le adulazioni: «Ma lei che ci fa alle donne, dottore?». Questo è il copione che si sono dati. Certo, è pietoso il finto torneo di lussuria con Berlusconi nel ruolo dell´adone desiderato, del beato tra le donne: «C´è stata una cosa di brasiliane, russe, italiane. Ho qui i numeri di otto nuove». Entrambi recitano e Tarantini, come Lavitola, non è pagato solo per trovare la merce – «tu, quelle due mi devi portare!» – ma anche per confortare la vanità: «Senti che voce? Stanotte ho fatto le sei e mezza in un locale. Donne a go-go…. Non ti dico poi cosa succede a Napoli. Quando vado lì ormai sono santo veramente».
E bisogna dire che in questa commedia consapevole Berlusconi è disperatamente solo. Esibisce una lascivia arcaica fatta apposta per essere truffata da Tarantini e da tutte le ragazze della sua scuderia che tra loro gli danno del «vecchio rincoglionito». E si preoccupano solo del compenso: «Chi mi da i soldi, tu o lui?». Chissà come devono sentirsi, leggendo queste trascrizioni, quelli che a Berlusconi hanno voluto davvero bene, e chissà la vergogna di quel suo mondo fatto di mamma Rosa e di ben 4 zie suore. Il laico musulmano Erdogan non lo ritiene all´altezza della moralità dell´Islam, e invece la Chiesa romana, cattolica e politicante, non si imbarazza per quella frase-sintesi «la patonza deve girare» che segna il legame ambientale di Berlusconi con questo tempo storico, lo arreda, sostituisce l´osceno al tragico della politica e della vita.
Tutta la patonza di cui si informa – «e l´altra, com´è l´altra?» – è il tesoretto di questa comitiva di governo, piccioli e spiccioli della cassa comune dei copulanti associati: «Poi ce le prestiamo». E ognuno ha il suo ‘parco patonze´. «Posso portare anch´io le mie?» chiede Berlusconi al suo pappone di professione: non può rischiare di mostrarsi sprovvisto di una materia anatomica di cui è conoscitore, amante e possessore e si riserva la botta da maestro: «Voglio che tu abbia le tue, se no mi sento in debito». E c´è tutto l´immaginario di un ‘papi´, altra parola d´epoca, che è al tempo stesso Gozzano e Sade, la tenerezza e la pedofilia, nelle «ballerine» che pretende indossate «senza calze», nella richiesta di «gonne corte» e nel vestitino aderente e nero. «Mi metto un tubino nero corto e non troppo scollato?» chiede la merce a Tarantini. La risposta è «mettitelo scollato» perché il ricottaro conosce l´urgenza della bava e della sporcificazione «delle fanciulle offerte al drago» come anticipò all´Italia la dolente signora Veronica.
E tocca il fondo del degrado lessicale quando dice «ieri sera mi sentivo carico perciò ho telefonato …» e «mi sono scaricato». Qui la vanità passa dal pavone al caprone, il carnevale esagerato diventa frasario da voltastomaco: da Brancati si scende ai sottoproletari di Verdone, ai graffiti sui muri dei gabinetti delle stazioni: «Vieni senza mutande».
E c´è sempre, in ogni pensiero e in ogni momento, l´ossessione della vecchiaia. «Sono vecchietto» dice di sé. E la merce che compie 29 anni «sta diventando vecchietta». E sono «vecchietti» anche Carlo Rossella e Fabrizio Del Noce, che Berlusconi convoca ed esibisce nel serraglio perché le ragazze si sentano «di fronte a due uomini che possono decidere del loro destino». A Tarantini dice: «L´unico ragazzo sei tu, gli altri siamo vecchietti, ma con molto potere» che è il surrogato della virilità e della giovinezza.
E la vecchiaia qui non è più l´età della saggezza, della cautela e del sorriso ma la sfida invasata all´anagrafe, più torello di quand´era ragazzo: «Ce ne sono quaranta», «non se ne vanno neanche con le cannonate», «sono stato eletto playboy dell´anno», è un millantare da ex goliarda logorato, un armamentario da soldato di leva di sessant´anni fa, un impossibile ritorno da ricco ai suoi venti anni scoperecci ma poveri, un eccesso così eccessivo che la verità, a furia di menzogne, viene di nuovo fuori in un dettaglio autentico: non se ne vanno perché «il prezzo è buono e il vitto pure».
Ma non si può ringiovanire a pagamento. Come gli studenti fuori corso che truccano il libretto universitario e raccontano a casa finti esami e finte lauree, Berlusconi non è per nulla interessato alla Merkel, al Papa, ad Obama, e al vero Sarkozy preferisce l´imitatore del Bagaglino: «Faccio il premier a tempo perso» è un´altra verità inconsapevole resa evidente dall´abuso di bugie, come «la patonza deve girare», come quel carico e scarico sull´indistinta carne che non è un prolungamento, un seguito, un ritorno alla polluzione adolescenziale ma è l´incontinenza della vecchiaia malvissuta, quel ritrovarsi i calzoni maculati di gocce e di chiazze, poche e sparse.

La Repubblica 18.09.11

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