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"Il crepuscolo leghista fra bugie, liti intestine e attacchi ai giornali", di Michele Brambilla

Forse se ne sono accorti in pochi, ma appena Bossi ha finito il comizio Roberto Cota, che era lì sul palco accanto a lui, l’ha toccato quasi di nascosto per attirare la sua attenzione e gli ha fatto il gesto del pugno. Il pugno, fai il pugno» gli ha probabilmente sussurrato. E allora il Senatur ha alzato il braccio buono e ha agitato il pugno alla piccola folla che stava lì davanti, e che ha ricambiato con un «Bos-si Bos-si», il vecchio coro che ci favella del tempo che fu, per usare le parole di un altro coro, quel «Va’ pensiero» che la Lega ha scippato al Risorgimento. In quel tenero suggerimento del governatore del Piemonte c’è molto dell’aria crepuscolare che ha accompagnato ieri la festa dei popoli padani. Il capo vecchio, stanco e bisognoso d’essere imbeccato; le patetiche bugie («Siamo in cinquantamila»); il timore di contestazioni interne; la percezione che «il tempo è scaduto», com’era scritto sul cartello di un manifestante in prima fila.

I leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che i giornalisti non capiscono né la Lega, né la gente del Nord. Per molto tempo è stato così. Ma il tempo è scaduto anche per queste recriminazioni, e i continui attacchi dal palco ai giornalisti – alcuni indicati con il dito, altri resi identificabili in tutti i modi – hanno suscitato nei cronisti più compassione che indignazione, perché quando un partito dà la colpa di tutto alla stampa, è come quando un allenatore dà la colpa agli arbitri. Non è per un pregiudizio che diciamo che quello di ieri è stato un triste spettacolo, anzi uno spettacolo triste, che è peggio. La Lega – piaccia o no – è fra i partiti italiani quello che ha da tempo il progetto politico più forte: il federalismo, e poi magari la secessione, comunque la rivendicazione di più potere e autonomia per una parte del Paese.

Proprio per questo fa tristezza vedere il fondatore, e ancora di più la sua ristretta corte, incapaci di sottomettere a quel progetto una questione familiare. Bossi che indica nel figlio Renzo – per il quale s’è addirittura inventato una laurea in Economia a Londra – il proprio successore, è uno spettacolo triste e ahimè caro Bossi, tanto italiano. È uno spettacolo triste anche il cercare di agitare la folla parlando o meglio sbraitando come se si fosse un partito d’opposizione, e non uno che negli ultimi dieci anni è stato al governo per più di otto. Rosi Mauro, furibonda perché nel partito (non sui giornali: nel partito, anche se senza uscire allo scoperto) la chiamano «la badante», ha urlato contro le tasse, la cassa integrazione e «la nostra gente» che perde i posti di lavoro. Di chi la colpa di tutto questo? Dell’opposizione? O dei giornali?

Ma sì: i giornali. Calderoli comincia il suo intervento così: «Hanno scritto che la Lega è spaccata. Sapete che cosa c’è di spaccato? I coglioni! I giornalisti ci hanno spaccato i coglioni». Poco dopo fa il gesto dell’ombrello, più avanti dice che «senza Bossi noi non saremmo un cazzo», perché questo è oggi il bon ton di un ministro. Ma quello che fa più tristezza è l’ostentazione di una verità virtuale. Rosi Mauro strappa applausi quando grida che «grazie alla Lega non hanno alzato l’età pensionabile delle donne», e c’è da chiedersi se chi applaude sappia o no che l’età pensionabile, dal governo di cui la Lega fa parte, è stata invece alzata; poi ne strappa altri sbandierando i «contratti territoriali, un’iniziativa della Lega grazie alla quale gli stipendi al Nord adesso sono più alti», e c’è da chiedersi quale film stiano vedendo quelli che applaudono. Chi ha parlato ieri dal palco di Riva Martiri evidentemente è convinto di avere di fronte un popolo disposto a credere a tutto.

Tornando a Calderoli, come spiegare l’incredibile discorso di ieri? È partito attaccando i giornalisti perché si sono inventati spaccature nella Lega, poi si è scagliato con durezza mai vista contro gli oppositori interni – «quattro sfigatelli» – e soprattutto contro i sindaci di Verona Flavio Tosi e di Varese Attilio Fontana, mai nominati ma evocati più che chiaramente. Le spaccature interne sono un’invenzione dei giornalisti? Sarà, ma la Lega ieri ha fatto di tutto per renderle palesi. Non hanno fatto parlare i capigruppi della Camera (Reguzzoni) e del Senato (Bricolo) per paura che venissero fischiati. E non hanno fatto parlare Tosi per paura che venisse applaudito. Roberto Maroni, quando è venuto il suo turno, ha detto che di spaccature non ce n’è e molto democristianamente ha chiamato accanto a sé e abbracciato Calderoli (chissà quanto hanno gradito i maroniani Tosi e Fontana, da Calderoli appena presi a male parole). Anche il rito dell’ampolla, cioè il momento finale della festa, ha confermato che la spaccatura non è solo nella testa dei «giornalai»: accanto a Bossi c’era tutto il cosiddetto «cerchio magico» (il figlio, Rosi Mauro, Reguzzoni, Bricolo più il fido Calderoli) ma di Maroni e dei suoi nemmeno l’ombra.

Dicevamo che l’impressione è quella di un gruppo dirigente convinto che i propri elettori e militanti siano disposti a credere sempre a tutto. Ma è così? Finché si tratta di dare del pirla ai giornalisti, non c’è problema. Non ce n’è nemmeno quando Bossi dice che in Italia è tornato il fascismo perché non c’è più libertà di esprimersi e di manifestare, e lo dice proprio lui che ha appena chiesto il licenziamento del direttore di «Panorama» per un articolo sgradito. Ma su tutto il resto, fino a quando gli crederanno? Ieri i militanti erano pochi ma uniti nell’esprimere un solo concetto: non ne possiamo più. C’era un cartello con una spina staccata, ce n’era uno con scritto «basta tasse» e soprattutto ce n’erano tanti con scritto «secessione». Quando Bossi parlava, un solo coro lo interrompeva a tempi regolari: «secessione-secessione». E lui ha dato l’impressione di non sapere che cosa rispondere, di limitarsi a prendere tempo. Ha detto che sì, prima o poi «la faremo finita», ma che comunque bisogna trovare «una via democratica alla secessione». Poi per cercare di tenersi buoni questi impazienti militanti stanchi di promesse, ha chiuso gettando in mare, oltre che l’acqua del Po, quella del Piave; e ha aggiunto che sul Piave gli alpini avrebbero dovuto voltarsi e sparare dall’altra parte. E anche questa battuta, che un tempo avrebbe generato indignazione, oggi genera più che altro tristezza.

La Stampa 19.09.11