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"La crisi vista dal Quirinale. Napolitano passa all’azione", di Mario Lavia

La maggioranza non tiene, spunta l’ipotesi della mozione di sfiducia Siamo al giro di boa. Uno che non adopera le parole a caso, Pier Ferdinando Casini, ieri mattina ha indirettamente comunicato la notizia politica del giorno dicendo che quello di Giorgio Napolitano «non è un silenzio inoperoso». Ed è vero: il presidente della repubblica da due giorni è passato all’azione. Con gli strumenti, beninteso, di cui dispone, innanzi tutto la famosa moral suasion, discreta. Ma è un fatto che gli avvenimenti delle ultime 48 ore lo hanno spinto a qualcosa di più: ad una ricognizione informale volta a qualcosa di concreto.
Cosa? La voce – perché di voce si tratta – riguarda la possibilità di giungere ad una mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni ma votata anche da un pezzo dell’attuale maggioranza.
Ipotesi tutt’altro che facile. Però il capo dello stato è troppo allarmato per l’ulteriore incarognirsi della situazione per lasciare ogni ipotesi intentata. Anche per questo lunedì pomeriggio ha chiamato al Colle Pier Luigi Bersani e ieri mattina Roberto Maroni, annotando la nuova presa di posizione di Beppe Pisanu e contattando molti altri personaggi del mondo politico. Il tutto dentro uno scenario terremotato (ieri alla camera il governo è andato “sotto” cinque volte).
Da dove nasca l’allarme è presto detto. Napolitano aveva riportato un brutta impressione dal colloquio al Quirinale con Berlusconi della settimana scorsa, quando il premier aveva chiesto il via libera ad un decreto sulle intercettazioni. Come si sa, il presidente aveva prontamente risposto picche. Ma quello che lo aveva colpito negativamente era stata la risposta, evasiva, di Berlusconi alle indiscrezioni su presunte frasi del premier su Angela Merkel.
Già, perché Napolitano è molto preoccupato per il deteriorarsi delle relazioni internazionali dell’Italia (confermato dalle voci su possibili passi diplomatici della Germania come «il richiamo dell’ambasciatore per consultazioni»). Il che, unito alla incredibile uscita di Bossi sulla secessione (duramente stigmatizzate ieri dal Colle: «fuori dalla storia e dalla realtà»), alla botta di Standard and Poor’s, alle continue richieste di dimissioni delle opposizioni e della Marcegaglia, e nel perdurante andamento drammatico della Borsa, ha costituito per il Colle un insieme di motivi più che sufficienti per agire.
Per questo, Bersani è stato convocato al Colle. «Scusate, intervengo adesso perché ho un impegno istituzionale…», ha spiegato il segretario del Pd mentre lunedì si trovava in un convegno del suo partito. Molti dei presenti hanno capito che qualcosa stava accadendo. E lo hanno compreso appieno poi, quando Bersani ha chiesto che il governo lasci il campo «ad horas», una formula più drammatizzante del solito, senza peraltro nominare la parola “elezioni”. E si capisce il perché.
Napolitano avrebbe chiesto al segretario del Pd di evitare di insistere su quella parola d’ordine – che commentatori e compagni di partito avevano letto come messaggio principale della kermesse di Vasto – richiamando l’attenzione su una domanda: quale fatto istituzionale può costringere Berlusconi a gettare la spugna?
Giacché – come ripetono al Colle – il Cavaliere ha ottenuto un voto di fiducia (sulla manovra) pochi giorni fa, e dunque occorre un atto parlamentare dello stesso tipo, stante l’atteggiamento tetragono del premier davanti ad ogni richiesta di passo indietro.
Una mozione di sfiducia al governo: ci sono le condizioni? Ecco perché il Quirinale vuole capire se sia vero oppure no che qualcosa in parlamento si sta muovendo. Il punto è sempre lo stesso: finché non si manifesta un esplicito dissenso all’interno dell’attuale maggioranza, poco si può fare.
Di qui il contatto di ieri mattina con Maroni, di cui tutti conoscono la volontà di voltare pagina e che viene indicato come l’artefice del dissenso leghista che potrà domani produrre il sì di Montecitorio all’arresto di Marco Milanese. E di qui i contatti “ordinari” del Colle con il governo e con la maggioranza (in serata ha ricevuto Gasparri e Cicchitto). Quello che bisogna appurare è se a Montecitorio ci possa essere una pattuglia – o qualcosa di più – di piediellini-leghisti disposti ad avallare un nuovo governo (il nome del suo primo ministro sarebbe quello di Schifani) formato da personalità svincolate dalle logiche di partito (come Pecorella e lo stesso Pisanu) e ovviamente comprendente esponenti dell’attuale opposizione e diversi “tecnici”.
Ma per ora Berlusconi è in sella e anzi barricato a palazzo Chigi, ad onta delle richieste di dimissioni che finiscono ogni dieci minuti sui terminali delle
Sotto la cenere della tenuta berlusconiana cova però il dissenso anche in zone pidiellin-leghiste e monta l’esasperazione delle opposizioni.
Gli ingredienti ci sono, manca l’innesco della miccia. Non sarà Giorgio Napolitano ad accenderla, non è questo il suo compito, che è piuttosto quello di garantire la piena funzionalità degli organi costituzionali, e uno di essi oggi praticamente non c’è: si chiama governo. E qualcosa bisogna fare.

da Europa Quotidiano 21.09.11

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“E il Quirinale vuole sapere se la maggioranza tiene”, di FRANCESCO BEI

Tutti gli ingranaggi stanno scattando all´unisono e il Cavaliere sente la trappola stringerlo alla gola: l´azione delle procure, le intercettazioni, il processo Mills e, da ultimo, il declassamento di Standard & Poor´s. Una doccia fredda per il premier che considera la decisione dell´agenzia di rating americana «tutta e soltanto politica». Parte di un «disegno preciso» nato tra i «circoli anglofoni» che avrebbero interesse a speculare sul fallimento dell´euro.
I suoi consiglieri hanno studiato riga per riga le motivazioni del verdetto di condanna. Ieri giravano alla Camera con una cartellina che conteneva la versione originale del «rating», per spiegare che la stessa agenzia ammette di aver considerato «soltanto i fattori politici, senza assegnare alcuno “score” (punteggio) ai fondamentali dell´economia come la struttura economica, la bilancia commerciale e la politica monetaria».
Ma questi sono dettagli che all´estero non contano affatto. Se ne sta accorgendo il ministro Franco Frattini, volato a New York per l´assemblea dell´Onu disertata dal Cavaliere. Che sta avendo difficoltà ad avere incontri bilaterali per quello che tutti i giorni i giornali stranieri raccontano dell´Italia. Di questo deficit di credibilità del governo è massimamente allarmato il capo dello Stato, che non a caso ha intensificato in queste ore i suoi colloqui politici al Quirinale. Una serie di incontri – prima con Casini, poi con Bersani, ieri Maroni e i capigruppo del Pdl Cicchitto e Gasparri – che appaiono delle vere e proprie “pre-consultazioni” per capire come muoversi nel caso la situazione precipiti. E i segnali di scollamento della maggioranza sono evidenti. L´incontro di Cicchitto e Gasparri era stato chiesto sabato scorso dal Pdl per sottoporre al capo dello Stato il problema della «competenza» della procura di Napoli a indagare su Lavitola e Tarantini. Ma ieri di questo non si è parlato, anche perché nel frattempo i pm si sono spogliati da soli dell´inchiesta e l´hanno inviata a Roma. Il problema sul tavolo era invece proprio la tenuta della maggioranza, mitragliata ieri da ben cinque votazioni a Montecitorio su un provvedimento del ministro Prestigiacomo. Napolitano ha chiesto conto ai due ospiti dello sfarinamento del Pdl, dove si sono contati 44 assenti. E si è sentito rispondere il ritornello del «va tutto bene», «la maggioranza c´è» e «il governo tiene»: le ripetute sconfitte in Aula sarebbero attribuibili soltanto a una «trascuratezza» dei singoli deputati, convinti che «la loro presenza non fosse necessaria». Sta di fatto che quella condizione elementare richiamata da Napolitano a Cernobbio ai primi di settembre – «il governo resta al suo posto finché ha la maggioranza» – improvvisamente sta venendo meno. Di questo il presidente della Repubblica è preoccupato. Ne ha parlato anche con gli esponenti dell´opposizione, chiedendo loro fino a che punto fossero disposti a farsi coinvolgere in un governo di emergenza nel caso fosse indispensabile. E ha ricevuto risposte positive. Non è un caso se Pier Luigi Bersani ieri abbia riposto nel cassetto la richiesta di elezioni subito, per annunciare che il Pd è pronto a «servire il Paese» per fronteggiare la crisi, ma solo se ci sarà una «novità politica» (cioè un passo indietro del premier). Così come va letta con attenzione la dichiarazione di Pier Ferdinando Casini, reduce anche lui da un incontro al Colle nei giorni scorsi. Napolitano, ha detto sibillino il capo dell´Udc, «non ha la possibilità di fare quello che tutti noi vorremmo e forse in privato vorrebbe anche lui», ovvero sostituire Berlusconi. Tuttavia «il suo silenzio non è inoperoso». Come dire che il capo dello Stato si tiene pronto a tutto nel caso la maggioranza venga meno per un incidente parlamentare. Un “incidente” come quello che potrebbe capitare domani sul voto segreto per l´arresto di Marco Milanese. Italo Bocchino, parlando in Transatlantico con Dario Franceschini, faceva ieri questo pronostico: «Dai 20 ai 30 deputati del Pdl voteranno contro Milanese insieme a 30 maroniani. Dall´opposizione dobbiamo calcolare non più di 5 per ogni gruppo che non seguiranno le indicazioni ufficiali. Alla fine per pochi voti passerà il sì all´arresto». E Franceschini: «Io sui nostri deputati sono strasicuro».
In attesa di un voto che potrebbe travolgere tutto, Berlusconi ieri ha incassato con sollievo la decisione del Gip di Napoli sulla competenza dell´inchiesta Lavitola-Tarantini. «Era ovvio – ha commentato – che alla fine sarebbe stata ristabilita la correttezza delle cose, ma il danno enorme che ho subito e che ha subito il Paese chi lo ripaga? Ho fatto bene a non incontrarli, era una trappola e ora è evidente».

La Repubblica 21.09.11