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"La scuola non può escludere", di Marco Rossi Doria

Mentre la metà dei giovani italiani ha un lavoro incerto o non lo ha, vi è il 20% di tutti i ragazzi tra i 15 e i 25 anni che non hanno completato la scuola superiore. Né hanno ottenuto una qualifica professionale spendibile. Il loro fallimento a scuola è precoce, si vede presto. Ha bisogno, per essere vinto, di supporto speciale e costante lungo gli anni – dalla prima infanzia fino a tutta l’adolescenza. Un supporto che oggi non c’è. Anche perché l’offerta di istruzione è troppo standardizzata per poter affrontare un’esclusione sociale e culturale multi-dimensionale, che ha bisogno di azioni flessibili, mirate, innovative e concordate tra le scuole e fuori. Sono tutti ragazzi poveri che vengono da famiglie povere. Sono due milioni. Sono spesso analfabeti funzionali: parlano, scrivono, leggono male, non conoscono i loro diritti; pur esposti ai media non hanno strumenti di lettura del mondo, delle informazioni, delle opportunità. Sono concentrati nelle aree urbane, nelle periferie sempre più abbandonate soprattutto del Mezzogiorno, ma non solo. Spesso hanno alle spalle storie di profonda frustrazione vissuta in modo ripetuto a casa, nel quartiere, a scuola. Una storia senza conferme positive. Cosa fanno? Cercano vie di uscita, si parlano sul cosa e come fare, nutrono sogni nonostante tutto. Fanno prove eroiche di emancipazione. Provano ad emigrare al Nord. Alla mercé di nuovi caporalati fanno tentativi faticosi di indipendenza e entrano e escono dal lavoro incerto o al nero. Provano a crescere, così, entro un girotondo di esperienze le cui costanti sono l’estrema brevità del rapporto di lavoro, il bassissimo reddito, le condizioni di lavoro non protetto e il grado basso di competenza e apprendimento richiesto per le mansioni svolte. Ovunque sono a un passo dall’alcool e dalle droghe alle quali devono saper dire di no. Ovunque circondati dal piccolo crimine di sussistenza nei quali cadono in una minoranza. In quattro grandi regioni sono anche nella immediata prossimità della criminalità organizzata, alla quale, in maggioranza, sanno resistere. Non hanno rappresentanza politica né sindacale. Non hanno banche o forme di credito solidale su cui contare per mettere su una qualche storia di autopromozione e di rinascita personale. Vengono aiutati da un privato sociale che, però, è ormai stremato in un paese privo di welfare. Senza via di riscatto né supporto che sia tale pesano sulle famiglie più povere d’Italia. Lì dove la crisi pesa trenta, cinquanta volte di più. Di fronte alla scena dei giovani poveri d’Italia, noi – che ci candidiamo alla guida del Paese – dobbiamo a loro e a noi stessi una presa di posizione. Che sia chiara, concreta. Che sia impegno politico, civile e etico insieme. Che si faccia una patrimoniale subito. Le cui risorse siano utilizzate, in modo diretto, a ridare la speranza innanzitutto a questi ragazzi e ragazze. I soldi vengano dati alle Regioni e alla grandi città. Come è stato per la 285 del primo governo Prodi. Sappiamo dove: le grandi aree urbane del Sud e le periferie povere delle città in generale. Si mettano su dispositivi semplici, che già hanno funzionato. Ci si concentri su 5 cose che tutte le esperienze mondiali ci ripetono che sono le cose da fare: 1) aumentare scuole materne e nidi e soprattutto rafforzare l’istruzione di base negli istituti comprensivi, dando più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato, a partire dalle aree metropolitane del Sud, creando vere e proprie zone di educazione prioritaria nella aree di massima concentrazione della dispersione scolastica; 2) puntare sul sistema di formazione professionale – che in alcune aree già argina questa specifica crisi – con al centro un triennio di intenso lavoro intorno al sapere fare, ai mestieri, con l’aggiunta di ore ben dedicate alle competenze di cittadinanza – saper leggere e scrivere, capire discorsi, seguire procedure logiche, usare i nuovi media; 3) creare task-force in tutte le aree più depresse, che coinvolgano, in progetti ad personam, scuole, imprese, parrocchie, centri sportivi, sindacati; 4) rafforzare le ore di alfabetizzazione nell’apprendistato e offrire un pacchetto di 300 ore annue personalizzate ai giovani adulti tra i 18 e i 28 anni, per acquisire le competenze minime necessarie per stare al mondo; 5) avviare un piano di sostegno al microcredito – d’accordo con banche, fondazioni e responsabilità sociale di impresa – per progetti di vera promozione di impresa, con procedure rigorose, controlli severi ma anche forte sostegno educativo. C’è da buttare giù questo governo. Ma c’è anche da dare subito speranza a chi ne ha più bisogno.

L’Unità 21.09.11