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"La valutazione della ricerca fa bene soprattutto ai giovani", di Stefano Fantoni*

Da quando si è ufficialmente insediata, all’inizio di maggio, dopo quasi cinque anni dalla sua istituzione, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca (Anvur) è stata oggetto di numerosi interventi, alcuni di supporto, con suggerimenti costruttivi, altri di aspra critica che denunciano paure a mio avviso infondate. Mi sembra quindi opportuno fare il punto sulla logica che guida l’azione dell’Agenzia, più che rispondere a singoli interlocutori. Il campo di azione dell’Anvur è vastissimo, dalla valutazione della ricerca a quella delle strutture universitarie, dall’accreditamento di nuove sedi e corsi alla determinazione delle regole per l’accesso ai ruoli accademici, punto questo che ha comprensibilmente suscitato il maggiore interesse, e di conseguenza gli attacchi più violenti, cui cercherò di rispondere spiegando la ratio della nostra proposta. Nel fornire al ministro indicazioni per il regolamento sull’attribuzione dell’abilitazione scientifica per professore universitario associato e ordinario, gli obiettivi che Anvur si è posta sono: innescare un processo di miglioramento dell’Università e individuare metodi di riconoscimento della qualità dei ricercatori e docenti che riducano il margine di arbitrio delle commissioni valutatrici.

La soluzione che abbiamo proposto, aprendola al dibattito e recependo parte dei suggerimenti dei colleghi, è riassumibile in due semplici concetti: chi aspira a una data posizione accademica deve avere requisiti almeno pari a quelli della metà superiore di coloro che già la occupano, garantendo così nel tempo il miglioramento della qualità media; chi si propone come «commissario» deve essere non inferiore a coloro che dovrà valutare. Per stabilire il possesso dei requisiti richiesti, si fa riferimento alle due procedure utilizzate nelle università di tutto il mondo, e cioè gli indicatori bibliometrici (numero delle pubblicazioni, numero di volte in cui sono state citate, continuità della produzione scientifica…) e il giudizio dei pari, che pur prendendo in considerazione le stesse variabili (su cos’altro dovrebbe fondarsi un giudizio di merito?), qualifica i riferimenti quantitativi, considerati non del tutto affidabili, soprattutto nei settori delle scienze umane e sociali.

Si sono quasi immediatamente costituiti gli schieramenti contrapposti dei «quantitativi» e dei «qualitativi». Questi ultimi, in un clima da «pietà l’è morta», denunciano la scomparsa di criteri come la passione per la ricerca, la sopravvalutazione degli aspetti internazionali, e ancora, la meccanicità di criteri e indicatori che, nati in ambito tecnico-scientifico, sono di difficile applicazione in ambito umanistico e sociale.

Verissimo: nessuno auspica che siano applicati degli automatismi riduttivi. Ma una norma generale che vogliamo serva a migliorare il sistema universitario non può essere disegnata sui casi eccezionali. È possibile che l’utilizzo degli indicatori lasci fuori un ottimo studioso «di nicchia», ma per contro riduce l’accesso di molti non meritevoli. È probabile che le più diffuse banche dati di indicatori bibliografici presentino dei limiti, ma la soluzione è che gli accademici italiani si diano da fare per costruirne di più affidabili, cosa che in verità molte società scientifiche stanno già facendo. Non si può sostenere la (in)validità di uno solo dei due sistemi senza tenere presenti anche i limiti dell’altro, ed esiste una corposa letteratura scientifica in merito. E del resto gli esiti spesso nefasti della selezione senza precisi vincoli sono sotto gli occhi di tutti.

Intendiamoci: le commissioni sono e restano sovrane. Se riterranno di assegnare l’abilitazione scientifica a un docente che non ha i requisiti richiesti potranno farlo, ma dovranno motivare la loro scelta. Anche i singoli atenei potranno chiamare, nei concorsi locali, questi stessi docenti, ma se la qualità del loro lavoro non sarà soddisfacente, se ne terrà conto nel valutare le politiche di reclutamento. L’unico modo per evitare ingiustizie o collusioni è quello di penalizzare chi compie delle scelte con motivazioni diverse dal merito.

Accettando la sfida di dotare l’Università italiana di un sistema di valutazione, già presente in Paesi come l’Olanda, la Francia, l’Inghilterra, fin dall’inizio degli anni Ottanta, ci aspettavamo delle resistenze e le resistenze ci sono state. Alcune sincere e intellettualmente motivate, altre più manifestamente legate a gruppi di interesse o di potere. Ci incoraggia molto il forte appoggio da parte di molti giovani ricercatori operanti sia in Italia sia all’estero, ma anche quello, a volte inaspettato, di società scientifiche e ampi settori della società civile, consapevoli di quanto una buona Università sia condizione indispensabile per lo sviluppo economico e sociale, oltre che per la promozione dei singoli.

Ci stiamo giocando una partita molto importante non solo per il sistema universitario ma per il futuro del Paese. È richiesto un salto di qualità, che muova dalla valorizzazione delle specificità e delle eccellenze e dalla lucida individuazione degli elementi di debolezza. I nostri colleghi potranno aiutarci a sostenere questo salto di qualità che ci attendiamo verrà innescato dal processo valutativo. Poco costruttiva invece è una critica aprioristica di ogni forma di indicatore o modo di giudizio e ancor meno utile il rimpianto dei bei tempi andati in cui l’unico criterio utilizzato era il principio di autorità. Siamo fiduciosi che la parte più ampia e più sana del sistema universitario e della ricerca sia pronta come noi dell’Anvur ad accettare la sfida del cambiamento.

*Presidente Anvur

Il Corriere della Sera 21.09.11