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"Il futuro è più forte della crisi", di Irene Tinagli

La settimana che ci lasciamo alle spalle non solo ha bruciato miliardi di euro sui mercati internazionali, ma sembra aver intaccato anche le speranze dei più tenaci ottimisti. In un momento simile è davvero urgente, come ha suggerito Christine Lagarde, che tutti i Paesi mettano da parte campanilismi ed esitazioni ed inizino a lavorare in modo più armonico e coordinato per ritrovare, in tempi più brevi possibili, stabilità finanziaria senza penalizzare ulteriormente la crescita. Tuttavia, anche in un momento così critico, è importante essere in grado, di tanto in tanto, di alzare la testa e saper intravedere le trasformazioni e le opportunità che si dispiegano nel lungo periodo. Provare a leggere i fatti di oggi non con la lente della cronaca, ma con quella della storia, per capire se e come questa fase si può inserire in un’evoluzione più ampia che abbia, alla fine, uno sbocco positivo.

D’altronde la storia economica dell’occidente è costellata da crisi continue e da alcune fasi di grandi cambiamenti epocali, fasi in cui cambia il paradigma produttivo, l’organizzazione industriale e sociale di un Paese. Ogni volta che ci troviamo di fronte a tali trasformazioni ci sentiamo minacciati, in pericolo, pensiamo d’essere di fronte alla fine del nostro mondo e della nostra società. Ma la verità è che poi il nostro mondo è sempre andato avanti. E sempre in meglio. Noi siamo probabilmente di fronte ad uno di questi cambiamenti «paradigmatici». Un cambiamento che, però, siamo incapaci di vedere e accettare. Uno dei motivi per cui siamo così incapaci di coglierlo è che siamo ancorati ad una visione dello sviluppo economico come di un fenomeno limitato, che non può durare all’infinito perché in fondo le risorse stesse sono limitate ed esauribili. È la stessa convinzione che ci fa credere che lo sviluppo sia un gioco a somma zero, in cui se uno guadagna l’altro perde. Ed è una visione miope e antistorica, che ci rende inutilmente catastrofici. Le risorse certamente sono finite, ma le modalità con cui si possono combinare ed utilizzare per creare prodotti e sviluppo (e occupazione) non lo sono. Per fare un esempio, agli inizi dell’Ottocento l’illuminazione si basava sull’olio di balena, una risorsa costosa e limitatissima. Molti all’epoca avranno pensato che nel giro di pochi anni sarebbero tornati tutti al buio, oppure che se i cinesi cominciavano a volere più lampade, avrebbero lasciato l’Europa e l’America al buio. Ma non è stato così. E non lo è stato grazie ad un geologo canadese che nel 1849 ha ideato un modo per distillare il cherosene dal petrolio, una risorsa più economica e abbondante delle balene. E così si è aperta una nuova era per l’illuminazione: più accessibile e duratura. Sostituita poi dall’elettricità, ancora più accessibile e «pulita». E trasformazioni così sono accadute e continuano ad accadere per i trasporti, l’industria, l’agricoltura. Anche solo ripercorrendo questi banali esempi ci rendiamo conto di come le possibilità di crescita e di trasformazione economica siano potenzialmente illimitate. Basta saper dar spazio all’innovazione e al cambiamento tecnologico, perché queste sono l’unica vera molla che nel corso della storia ha guidato questi processi di sviluppo. Innovazione nei modi di usare e organizzare le risorse naturali, il lavoro, ma anche l’istruzione, l’intelligenza umana, e persino i nostri sistemi politici. E’ per questo che, pur nell’esigenza di trovare soluzioni-tampone all’emergenza attuale, è importante non perdere di vista i grandi processi che guidano la crescita nel lungo periodo e tenere un occhio sempre attento a tutti i segnali di innovazione che si annidano nel lavoro di ricercatori, scienziati e imprenditori visionari. Perché questi sono già pezzetti di futuro che ci germogliano in seno.

Purtroppo, mentre le innovazioni che potrebbero disegnare il nostro futuro stanno prendendo forma in qualche angolo del mondo, noi sembriamo incapaci di uscire dai vecchi paradigmi. E continuiamo a chiederci quali industrie sovvenzionare, quali accordi commerciali o quali dazi o incentivi ripristinare per tenere in vita le nostre vecchie fabbriche sempre più vuote. E pensare che nel 1948 l’economista americano Edgar Hoover scrisse: «L’importanza relativa della manifattura come fonte di occupazione ha raggiunto ed esaurito il suo picco una generazione fa». E certamente la manifattura che conosceva Hoover andò progressivamente scemando. Ma l’economista non sapeva che proprio in quegli anni nei laboratori di alcune aziende e università americane stavano germogliando innovazioni che hanno portato ad una nuova rivoluzione industriale, quella dei computer e dell’elettronica. Una rivoluzione che ha cambiato radicalmente non solo le nostre aziende ma le nostre vite e la nostra società, con una spinta espansiva che era inimmaginabile nel momento in cui Hoover scriveva.

Certamente oggi è importante e urgente tamponare l’emergenza dei debiti sovrani, cercando magari di riattivare un po’ di occupazione con i mezzi e nelle realtà oggi disponibili. Ma non è lì che giace il nostro futuro. Cerchiamo di non abbassare troppo lo sguardo altrimenti rischiamo di farcelo sfuggire quando ci passerà davanti.

La Stampa 25.09.11