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"Basta curare i malati terminali", di Andrea Malaguti

Londra, 37 studiosi: non si deve spendere per medicine inutili nelle ultime settimane di vita. Spaventati dalla spirale fuori controllo dei costi per la cura dei tumori, un gruppo di 37 studiosi di tutto il mondo, guidati dal professor Richard Sullivan del King’s College di Londra, ha pubblicato su «Lancet Oncology» i risultati di una ricerca di dodici mesi che sta agitando la comunità scientifica internazionale. Il senso è semplice: ogni anno circa 12 milioni di persone ricevono una diagnosi di cancro. E la cifra potrebbe salire a 27 milioni entro il 2030. I costi dei trattamenti arrivano in questo momento a 893 miliardi di dollari e solo in Gran Bretagna la spesa per le terapie oncologiche è passata dai due miliardi di sterline del 2002 ai cinque di oggi. Statistiche che agitano il professor Sullivan. «Andiamo incontro a una crisi inimmaginabile». Perfetto. Ma qual è il sottotesto di un’affermazione del genere?

Seduto in uno studio gelido della «Bbc», un fondale neutro alle spalle, il professore, un uomo duro, belloccio, disabituato a sorridere, recita a memoria il discorso pronunciato davanti a un’assemblea di medici lunedì scorso a Stoccolma. «I dati dimostrano che una sostanziale percentuale delle spese per cure anticancro avviene nelle ultime settimane e mesi di vita dei pazienti. E che in larga percentuale queste cure non solo sono inutili, ma anche contrarie agli obiettivi e alle preferenze di molti malati e delle loro famiglie». Una gigantesca truffa del dolore? Non esattamente, forse. Ma dal punto di vista dei 37 nobili firmatari del documento pubblicato su «Lancet» il ricorso costante a trattamenti inutili e costosissimi in nome di un supposto senso etico. «Stiamo correndo lungo una traiettoria che non ci possiamo più permettere. Non basta tenere a freno i costi. Dobbiamo anche ridurli. Altrimenti le disuguaglianze tra ricchi e poveri diventeranno sempre più nette». Per fare in modo che ogni sua parola cada esattamente dove è attesa, Sullivan snocciola un altro po’ di dati. Dal 1970 al 2011 nel Regno Unito i farmaci antitumore sono saliti da 35 a 100. Solo negli ultimi sei mesi ne sono stati approvati otto. Medicinali che hanno un costo medio di 2500 sterline a settimana. «È un treno che sta andando a sbattere». Non tutti la pensano come lui.

Rose Woodward, professore del James Whale Found for Kidney Cancer, è convinto che quando una persona grida il proprio dolore non crede necessariamente che qualcuno possa alleviarlo. A volte ha più bisogno che gli altri mitighino la sua solitudine. «Non è una visione solo romantica. Esiste ad esempio un farmaco chiamato Sutent con cui abbiamo prolungato la vita di pazienti malati di cancro ai reni non per settimane, ma per anni». E Andrew Wilcon, amministratore delegato della Rare Cancer Foundation, si schiera al suo fianco: «Negli ultimi trent’anni, di fronte all’innegabile aumento dei costi, abbiamo raddoppiato il numero di vite salvate. E non mi pare che questa tendenza sia in calo. I nuovi farmaci servono». Difficile dire in questo scontro chi siano i buoni e chi i cattivi.

Ci sono i numeri. Poi ci sono le storie personali. Martin Colworth, assistente sociale di Manchester, racconta che quando ha saputo che nel giro di pochi mesi sua moglie sarebbe morta di un tumore al seno gli è sembrato di impazzire. «Ha solo trent’anni e il destino è stato cattivo con lei. Abbiamo perso due bambini prima che nascessero». Ancora adesso gli sembra impossibile che tutta quella sfortuna possa entrare in un solo corpo. Spiega che ha passato la mattina di ieri a discutere con lei della ricerca di «Lancet». «All’inizio l’abbiamo presa male. Poi abbiamo cercato di ragionarci su. Anna mi fa domande difficili e io non so che cosa risponderle. Spesso ci ripetiamo in silenzio: perché è così? Non vogliamo fare da cavie, ma vorremmo avere tempo. E magari questa ricerca ce ne toglierà un po’ di quel niente che ci rimane». Stordito dal fiume in piena che gli ha allagato l’esistenza guarda fuori dalla finestra, senza sapere più che cosa pensare mentre resta appoggiato all’incomprensibile davanzale della vita.

La Stampa 28.09.11

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“I rischi dell’eccesso terapeutico”, di UMBERTO VERONESI
Anche se a prima vista la denuncia di Richard Sullivan e dei suoi colleghi può sembrare eccessivamente cinica, plaudo a questa iniziativa perché ha il merito di affrontare un tema che tutto il mondo dell’oncologia conosce, ma raramente ha avuto il coraggio di porre al centro del dibattito della pubblica opinione.

Conosco il pensiero di Sullivan, a cui l’Istituto Europeo di Oncologia è legato da collaborazioni scientifiche, e condivido il suo attacco alla «cultura dell’eccesso». Prima di tutto eccesso terapeutico. Ho sempre pensato che sia fondamentale in tutto il percorso di cura, e tanto più nella fase terminale, ridurre al minimo la tossicità per evitare situazioni estreme in cui si aggiunge malattia alla malattia. Ma non si tratta affatto di abbandonare il malato, al contrario si tratta di offrirgli terapie di supporto avanzate e mirate per il trattamento sia del dolore fisico, che della sofferenza, che è altra cosa. Terapie, dunque, che non aggiungono tossicità. Oggi disponiamo di approcci terapeutici che tengono conto anche dell’aspetto psicologico del paziente in fase terminale.

C’è poi il problema legato all’«eccesso di costi», che il lavoro di Lancet Oncology denuncia con forza. In un momento di crisi globale in effetti è ancora più incomprensibile un utilizzo di farmaci ad altissimo costo che non portino sensibili vantaggi ai malati. Posso capire le reazioni indignate di chi istintivamente rifiuta qualsiasi ragionamento economico applicato alla malattia. Ma tengo a sottolineare che la questione dei costi in questo caso non vuol dire risparmiare, ma cambiare l’atteggiamento della medicina moderna, che non deve dar prova di tutte le sue possibilità fino a sfiorare l’«accanimento terapeutico», quanto tornare a considerare la dimensione individuale di ogni malato, la sua storia e la sua percezione personale della vita con la malattia.

La Stampa 28.09.11