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"Fenomenologia di Bossi Né lingua, né popolo, la Padania è un’invenzione", di Giuliano Procacci

L’analisi: Giuliano Procacci, scomparso tre anni fa, esaminò in un saggio del 2004 il programma leghista e dimostrò come l’idea di una nazione padana non abbia alcun fondamento. «C’è un uso disinvolto della storia che produce solo una certa evanescenza»

Quali interessi economici e quali pulsioni costituiscano il sostrato sul quale si è sviluppato il movimento leghista è cosa che chiunque sia vissuto in Italia settentrionale o ne conosca la realtà non fatica a comprendere. Sin dall’infanzia mi sono sentito ripetere che i meridionali erano degli scansafatiche che vivono alle spalle degli operosi settentrionali e che la burocrazia romana era inefficiente e parassitaria. Il fatto sta che tali discorsi si facevano in famiglia o nelle osterie e non, come accade ora, nelle piazze e in Parlamento. Su questa base consuetudinaria si è sviluppato un movimento politico che rivendica una propria identità sino a reclamare l’indipendenza per la sua terra e la sua patria, la Padania.
Ma di quale terra e di quale patria si tratta? E anzitutto quale è il suo ambito geografico e quali sono i suoi confini? Nella «dichiarazione di indipendenza e sovranità» del 15 settembre 1996 resa dai «popoli della Padania convenuti sul grande fiume Po» si legge che «noi apparteniamo ad un’area storica, la Padania, che sotto il profilo socio-economico è fortemente integrata al suo interno pur nella riconosciuta e rispettata diversità dei popoli che la compongono». Fin qui siamo nell’indistinto. Una qualche precisazione geografica la troviamo però nell’enfatico proemio della dichiarazione. Vi si dice infatti che i «popoli» in questione provengono dalle seguenti regioni elencate in ordine alfabetico: l’Emilia, il Friuli, la Liguria, la Lombardia, le Marche, il Piemonte, la Romagna, il Sudtirol-Alto Adige, la Toscana, il Trentino, l’Umbria, la Valle d’Aosta, il Veneto e la Venezia Giulia.
Questo stesso elenco troviamo nella Costituzione transitoria del settembre 1996
e nella Costituzione dell’Unione federale della Padania approvata nel luglio 1998 dal Parlamento padano riunito a Chignolo Po, con la sola differenza che nella prima non si parla più di «popoli», ma di «regioni» e nella seconda di «nazioni», ciascuna delle quali peraltro costituita da più «popoli» cui è riconosciuto il diritto di aderire o meno all’Unione ed eventualmente di recederne mediante referendum. (…)
Da un punto di vista strettamente geografico, sia pure con ampi margini di approssimazione, la denominazione Padania potrebbe anche avere un senso. Ovviamente però non bastano un territorio, dei confini e un fiume per trasformare una «espressione geografica » in una nazione o anche soltanto in una comunità di «popoli». Ci vogliono dei requisiti in primo luogo quello di una lingua. Questa lingua notoriamente esiste, ma essa ha il difetto di essere quella stessa che è parlata nella “penisola” al di sotto della linea gotica, una lingua imposta dai conquistatori stranieri, in una parola “italiana”. «Lo stato italiano – leggiamo infatti nella citata dichiarazione del settembre ’96 – ha deliberatamente tentato di sopprimere le lingue e le identità culturali dei popoli della Padania attraverso la colonizzazione del sistema pubblico di istruzione».
Ma quali sono queste lingue? Come i «popoli» o le «nazioni» che costituiscono la Padania, esse sono numerose. La rivista della Libera Compagnia Padana – associazione costituitasi nel 1995 per promuovere l’identità padana – pubblica sulle sue pagine articoli in insubre, ligure, ladino, orobico, occitano, emiliano, piemontese e friulano. È evidente però che quel che può fare una pubblicazione parrocchiale e mirata a un pubblico selezionato, non lo può fare un giornale che aspiri a una tiratura ampia e tanto meno un partito politico. Accade così che i documenti ufficiali della Lega Nord e la sua stampa siano redatti in italiano e che una buona metà degli articoli pubblicati dagli stessi “Quaderni padani” siano in “toscano”, per non voler dire italiano. Esiste invece una molteplicità di dialetti che presentano notevoli varianti anche tra zone contigue. Ammetterlo sarebbe imbarazzante ma altrettanto sarebbe il negarlo. Per uscire da questa impasse si ricorre perciò all’espediente di ribattezzare i dialetti in «lingue locali». Diremo perciò che le poesie del Porta non sono in dialetto milanese, ma in una imprecisata “lingua locale”.
Non resta allora che scavare alla ricerca di glorie passate e di simboli in quel «condiviso patrimonio di valori, di cultura, di storia». Tra le glorie passate il posto d’onore spetta con tutta evidenza al giuramento con il quale a Pontida i Comuni aderenti alla Lega lombarda si impegnarono a combattere contro il Barbarossa e tra i simboli esso spetta al Carroccio. Siamo tutti testimoni dell’uso e dell’abuso che viene fatto dell’uno e dell’altro. Si tratta, come è noto, di un topos di origine risorgimentale e carducciana del quale Bossi non ha esitato ad appropriarsi declinandolo e distorcendolo in versione federalista o secessionista. La storia recita infatti che Alberto da Giussano e i Comuni lombardi non combattevano contro Roma, il cui Papa sosteneva anzi la loro lotta, ma contro un sovrano straniero. In quest’ottica la battaglia e la vittoria di Legnano sono parte integrante del patrimonio delle glorie nazionali (…)
Per dare un qualche fondamento a questo sgangherato e dilettantesco revisionismo taluni difensori della padanità non rifuggono dal far propri gli argomenti della polemica antisabauda, se non filoborbonica, di certa pubblicistica meridionalista. Capita così che in testa a una lista di letture consigliate per una vacanza “padana” figuri il libro di Carlo Alianello La conquista del Sud, in buona parte dedicato all’esaltazione dell’eroismo dei Borboni assediati a Gaeta e alla rivalutazione del brigantaggio. Immagino lo sgomento del lettore padano quando si imbatterà in un passo in cui si afferma che i soldi della Cassa del Mezzogiorno finiscono per rifluire tutti «nel cerchio delle Alpi tra la Dora e il Mincio. E aggiungiamoci il Po».
In conclusione, solo un uso disinvolto della storia può consentire la costruzione di un’ipotetica identità padana: la Padania, intesa come un’entità etnicamente e culturalmente omogenea, non è mai esistita. Ma come spiegare allora la sia pur limitata forza di suggestione e attrazione che questo flatus vocis esercita? Penso che abbia ragione Alberto Battaggia quando osserva che «tuttavia la Padania, entrata nella koinè massmediologica, ha iniziato ad esistere, la secessione non appare più una follia, ma un disegno strategico» e anche quando rileva che «il capolavoro politico della Lega sta forse proprio qui, nell’aver saputo costruire un immaginario politico nazionalistico senza potere poggiare su solidi presupposti obiettivi». Per parte mia direi che, per quanto ciò possa apparire paradossale, è proprio l’evanescenza ed inesistenza della Padania a conferirle credibilità. Qualsiasi altra denominazione avrebbe urtato radicate suscettibilità cittadine e regionali. Un veneziano non può riconoscersi in una patria che si definisca lombarda o celtica e un milanese con secoli di orgoglio cittadino alle spalle non si riconoscerà in alcuna Insubria né un torinese in alcuna Occitania piemontese. Tutti invece possono riconoscersi in una sorta di limbo, di luogo virtuale quale è appunto la Padania. Nelle nebbie della valle del dio Po tutte le vacche sono grigie. Occorre però anche dire che se questa indeterminatezza e questa evanescenza valgono a render ragione dell’iniziale forza di attrazione del messaggio leghista, esse costituiscono anche la base della sua inconsistenza e debolezza. Una volta dissoltesi le nebbie, si scopre infatti che le vacche non sono tutte eguali, che i dialetti non sono lingue e che ogni piccola patria è diversa dalle altre. Al regionalismo subentrano i municipalismi e i campanilismi. Il meccanismo scissionistico che ne aveva favorito il successo si ritorce contro coloro che l’avevano avviato.

Da Niccolò Machiavelli allo studio degli italiani
Il testo che pubblichiamo in questa pagina è uscito sul numero di gennaio 2004 della rivista mensile «La lettera», diretta da Roberto Gualtieri e Claudio Mancini.
Giuliano Procacci, allievo di Federico Chabod, morì tre anni fa, esattamente il 2 ottobre del 2008. È stato uno dei più grandi storici italiani. Studioso di Machiavelli, si è occupato del carattere degli italiani ed è autore, tra l’altro, della «Storia degli italiani» pubblicato da Laterza e della «Storia del XX secolo». La sua analisi sulla Padania è contenuta anche nel volume «Carte di identità», Editore Carocci.

da L’Unità

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«Il padano non è un popolo», di Antonio Cassese

Ha forse torto Giorgio Napolitano a dimenticare il «diritto universale dei popoli all´autodeterminazione», come ha detto l´onorevole Roberto Calderoli? No, è Calderoli che ha torto quando rivendica quel diritto per il così detto popolo padano. Né la Costituzione italiana, né il diritto internazionale conferiscono l´autodeterminazione agli abitanti della Padania.
La nostra Costituzione è chiarissima. L´articolo 5 proclama che la Repubblica è una e indivisibile, anche se attenta alle esigenze dell´autonomia e del decentramento. E infatti neanche l´Alto Adige, una regione con una forte minoranza linguistica, e i cui leader politici avevano invocato per anni la secessione, l´ha ottenuta, perché contraria alla nostra Carta costituzionale.
Ma nemmeno il diritto internazionale, ancora impregnato delle idee lanciate nel 1914-15 dal presidente statunitense Wilson e da Lenin, riconosce alcun diritto al “popolo padano”. Attualmente il diritto internazionale accorda l´autodeterminazione “esterna”, e cioè il diritto all´indipendenza eventualmente raggiungibile attraverso la secessione, solo a tre categorie di “popoli”: (1) quelli coloniali; (2) quelli sottoposti a dominio straniero o ad occupazione militare (come il popolo palestinese o quello del Sahara ex spagnolo sottoposto all´occupazione del Marocco); (3) ai gruppi “etnico-razziali-religiosi” discriminati così gravemente a livello politico e sociale dalle autorità centrali da non essere in alcun modo rappresentati nelle assise di governo (è quel che succedeva alla maggioranza di colore in Sudafrica all´epoca dell´apartheid).
Ora, è chiaro che il “popolo padano” potrebbe tutt´al più ricadere nella terza categoria. Ma così non è, per due ragioni. Ove anche quel “popolo” costituisse una minoranza etnico-razziale–religiosa, il che non è, è un fatto che non solo non è discriminato politicamente e socialmente ma che ha addirittura tre ministri al governo. Per una ragione simile qualche anno fa la Corte Suprema del Canada negò l´autodeterminazione al Québec – che pure costituisce una minoranza linguistico-religiosa – appunto perché quella minoranza non era affatto discriminata a livello politico centrale.
Ma la ragione determinante è che la Padania è solo un´entità geografica, anche se ha le sue tradizioni e ha dato vita ad un partito politico. Quindi, parlare per essa di autodeterminazione e secessione è parlare a vanvera. Ovviamente Calderoli nemmeno potrebbe invocare il diritto all´autodeterminazione “interna”, che è il diritto universale ad un sistema rappresentativo, pluripartitico e democratico: sistema questo che è già pienamente operante in Italia.
Sarebbe opportuno che si smettesse di inquinare il discorso politico con fumose ed inconsistenti chimere, che creano aberranti aspirazioni, distraendo dai tanti gravi problemi che affliggono l´Italia. E forse sarebbe utile che alcuni nostri politici si leggessero qualche manuale elementare di diritto costituzionale e internazionale.

da la Repubblica 2.10.11