economia, politica italiana

"Welfare, diritti sociali, utilità sociale. Solo parole, o un imperativo costituzionale ancora vincolante per il legislatore?", di Giovanna De Minico *

Welfare, diritti sociali, utilità sociale. Solo parole, o un imperativo costituzionale ancora vincolante per il legislatore?
La dimensione solidaristica della nostra Repubblica, impegnata a compensare le diverse fortune iniziali delle persone, operava ora come limite alla ricerca egoistica del profitto (articolo 41 della Costituzione), ora come fine ultimo dell’uguaglianza sostanziale (articolo 3). Si pensi ai sussidi ai ragazzi capaci nello studio ma privi di mezzi per provvedervi o agli incentivi all’imprenditore per consentire ai lavoratori un’esistenza dignitosa.
Esempi significativi di welfare che rischiano di diventare archeologia giuridica in seguito al disegno di legge di revisione costituzionale (AC 4144), che prevede la soppressione dell’utilità sociale, valvola compensativa della lucratività con le istanze sociali. Pertanto, la sua eliminazione farebbe arretrare le domande sociali rispetto alle aspettative di profitto dell’imprenditore. Questo disegno di legge giace presso la prima Commissione della Camera. I rischi per il welfare provengono, però, anche da altra fonte: precisamente, dall’annunciato disegno di revisione degli articoli 53, 81 e 119 della Costituzione. Questo atto, in nome della prevalenza del diritto europeo su quello interno, introduce rispettivamente l’obbligo del pareggio di bilancio e il divieto di ricorso al debito pubblico.
Le due affermazioni vanno spiegate insieme, come insieme sono state introdotte. Pareggio significa che se sono previste uscite per 100 dalle casse dello Stato, devono parimenti essere previste entrate per 100. Indebitamento significa invece che per coprire una spesa di 100 lo Stato non può più farsi prestare i soldi dai risparmiatori: se facesse questo, coprirebbe nell’immediato la spesa, ma nel suo bilancio quel prestito, figurando tra le poste passive, altererebbe l’equilibrio.
Entrambe le regole vengono dall’Europa, dal Consiglio Europeo del 24-25 marzo? Questa affermazione è vera solo in parte. L’atto europeo prescrive sì il pareggio di bilancio, ma non anche il mezzo per conseguirlo. Spetterà dunque ai singoli Stati decidere il da farsi. E cioè se intervenire sulle entrate, aumentandole, o sulle uscite, contenendole. Se si optasse per queste ultime, poi, si potrà ancora scegliere le voci della spesa in esubero da tagliare. Quindi, la cura dimagrante potrebbe colpire la politica nei suoi costi impropri o l’amministrazione pubblica nelle sue croniche inefficienze o infine il debito pubblico, cioè il prestito accordato dai cittadini allo Stato. Il nostro Governo ha scelto proprio quest’ultimo rimedio come via esclusiva e peraltro a percorrenza obbligatoria per le maggioranze politiche future, quale effetto del suo inserimento nell’articolo 81 della Costituzione. È opportuno però chiarire che non si tratta di un’operazione calata da Bruxelles, ma di una precisa scelta di politica di Governo, della cui costituzionalità è ragionevole dubitare, dato l’effetto preclusivo sull’indirizzo politico delle maggioranze future e la sua incompatibilità con il welfare. Se fino a oggi i diritti sociali si sostenevano economicamente anche con il ricorso al debito, il nuovo articolo 81 condizionerà l’uguaglianza sostanziale non solo alle disponibilità economiche, ma alla provenienza di quei soldi, non più generabili dai prestiti degli investitori allo Stato.
Ci auguriamo che Governo e Parlamento ripensino l’endiadi pareggio-indebitamento, considerando che proprio il documento europeo chiede che accanto al contenimento della spesa, comunque conseguito, lo Stato debba realizzare misure per la crescita sociale, cioè le stesse che in sede costituzionale vorremmo precluderci.
Giova ricordare che già la Commissione D’Alema, nel proporre modifiche all’articolo 81 della Costituzione, aveva introdotto il vincolo del pareggio unitamente al raffreddamento del debito pubblico, ma, al tempo stesso, aveva contemplato il ricorso in deroga a quest’ultimo, non solo rispetto a situazioni eccezionali, ma anche a vantaggio delle spese in investimenti strutturali. Delle due deroghe, la revisione in atto prevede solo la prima, e una diversa seconda, identificata «nelle fasi avverse del ciclo economico», peraltro rimesse alla sola individuazione del Governo, e non delle Camere a maggioranza qualificata. La riforma dell’articolo 81 dunque dice troppo perché sceglie un’unica via per far quadrare i conti: l’azzeramento del debito pubblico. E dice poco perché non contempla tra le deroghe le necessità sociali, cioè gli investimenti strutturali, dando un’attuazione socialmente aggressiva al documento europeo.

*Professoressa di Diritto costituzionale all’Università Federico II di Napoli

da www.ilsole24ore.com