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"L´ultimo strappo di Marchionne", di Massimo Giannini

Il divorzio tra Fiat e Confindustria si è dunque consumato. Sergio Marchionne, l´Amerikano, viola anche l´ultimo tabù, e porta il Lingotto fuori da Viale dell´Astronomia. Cioè fuori dal luogo fisico, ma anche istituzionale e sociale, dove la Fiat era sempre stata dal 1910, dai tempi del senatore Giovanni Agnelli fino a Vittorio Valletta e poi all´Avvocato. Lo «strappo», anche solo per questo, si può davvero definire storico. Per un secolo Fiat e Confindustria sono state una cosa sola. La prima sceglieva i presidenti della seconda. Un unico, vero Potere Forte, che condizionava i governi e ne orientava le politiche.
Questa «cinghia di trasmissione» subì una prima rottura con l´elezione di Antonio D´Amato nel 2000, sull´onda di una Vandea dei «piccoli padroncini» che Agnelli patì e salutò a modo suo, con una delle frasi che resteranno negli annali della Repubblica: «Hanno vinto i berluschini». Ma undici anni e molte polemiche dopo, c´è voluto il super-manager italo-svizzero-canadese a compiere la rottura definitiva. Una rottura che, al di là della portata simbolica, ha un profondo significato politico ed economico. Mentre esce da Confindustria, la Fiat sembra fare un passo in più verso un´altra uscita, molto più significativa: l´uscita dall´Italia. Un´uscita da un impianto culturale (le pratiche concertative e le regole associative, la contrattazione nazionale e la costituzione materiale) che prelude sempre più all´uscita da un sistema industriale. Un´uscita per altro largamente annunciata, e larvatamente preparata, nel corso di quest´ultimo anno e mezzo. Gli accordi separati del 2010 (Pomigliano D´Arco a giugno e Mirafiori a dicembre) erano già un implicito «manifesto» pubblico del modello Marchionne: mani libere nelle fabbriche e intese con chi ci sta, se serve anche al di fuori della gabbia del contratto collettivo. Ora, con la lettera in cui ufficializza l´addio del Lingotto a Viale dell´Astronomia a partire dal primo gennaio 2012, l´amministratore delegato rende esplicito quel «manifesto». La Fiat «è impegnata nella costruzione di un grande gruppo internazionale, con 181 stabilimenti in 30 Paesi». Non può permettersi il lusso di «operare in Italia in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato».
L´inciampo italiano, per Marchionne, è rappresentato dal sistema di regole alla quale Confindustria ha scelto di restare ancorata, rifiutando di ascoltare la sirena che da Torino cantava ormai da un paio d´anni. Un sistema che ruota intorno alla difesa del contratto collettivo nazionale, che deve garantire certezza dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori, in tutti i settori e in tutto il territorio nazionale. Alla valorizzazione dei contratti aziendali, che disciplinano tutte le materie «delegate», anche in deroga parziale al contratto nazionale, ma con i limiti e le procedure disciplinate da quest´ultimo. Al principio della rappresentatività e della maggioranza, che garantisce la validità e l´applicazione di questo doppio impianto contrattuale dentro le fabbriche.
Questa piattaforma è stata ribadita da Confindustria e sindacati con l´accordo del 28 giugno scorso, che ha sancito una ricucitura importante nel metodo della concertazione, con il ritorno al tavolo, e alla successiva intesa, anche della Cgil. Quell´accordo a Fiat andava stretto. Perché non lasciava sufficiente discrezionalità alle aziende, soprattutto sui licenziamenti. È nato così l´articolo 8 della manovra d´agosto. Con quella norma il governo è venuto incontro alle richieste Fiat, cogliendo un varco lasciato aperto dall´accordo di giugno, che allarga anche alla «legge» (e non solo al contratto nazionale) lo spettro delle materie «delegate» alla contrattazione aziendale in deroga. Il ministro Sacconi, con quel blitz agostano, ha stabilito che le intese aziendali possono derogare alla legge o al contratto nazionale, compreso lo Statuto dei lavoratori. In questo modo salta l´intero apparato degli istituti di tutela dei lavoratori: dalle mansioni agli inquadramenti, dal part time agli orari. Ma soprattutto, l´articolo 8 concede alle imprese, di fatto, la libertà di licenziamento.
Per questo la Cgil è scesa in piazza il 6 settembre, decretando lo sciopero generale. Per questo, soprattutto, Confindustria e sindacati sono tornati a sedersi al tavolo interconfederale, e il 21 settembre hanno siglato un nuovo accordo, confermando «l´autonoma determinazione delle parti sociali» in tutte le scelte relative «alle relazioni industriali e alla contrattazione», nazionale e aziendale. Una scelta coraggiosa e responsabile. In una stagione di forte crisi economica e di alta instabilità politica, le parti sociali hanno ristabilito il primato della concertazione, e hanno disinnescato l´inutile e pericolosa «mina» dei licenziamenti. Il governo Berlusconi ha inserito l´articolo 8 in un «luogo» improprio, il maxi-decreto anti-deficit, come fattore di condizionamento ideologico e di scardinamento sociale. L´accordo interconfederale del 21 settembre (al di là delle diverse esegesi giuslavoristiche che l´hanno accompagnato) ha opportunamente disinnescato quella «mina». Ristabilendo, come nel ‘92, una benefica «supplenza» nei confronti di una politica irresoluta e irresponsabile.
Ora è proprio contro quella mossa che si scaglia Marchionne. Ed è proprio quella mossa che il «ceo» della Fiat usa come argomento, per giustificare il «divorzio» da Confindustria. Il «lodo» del 21 settembre «rischia di snaturare l´impianto previsto dalla nuova legge», e di «limitare fortemente la flessibilità gestionale». Evidentemente, un esito del tutto inaccettabile per il Lingotto. È questo, dunque, il «peccato» di Emma Marcegaglia. Aver riportato la Confindustria al tavolo della concertazione, e aver ricostruito la trama lacerata dei rapporti sociali, all´insegna di un´idea quanto più possibile condivisa delle relazioni industriali nelle fabbriche, dei diritti fondamentali delle persone, e alla fine dell´Italia che produce, che lavora e che deve cercare faticosamente una comune via d´uscita dal declino.
Lo «strappo» di Marchionne ha quindi una chiave di lettura, visibile, che è prevalentemente socio-economica. Volendo, ce n´è anche una meno visibile, e tutta politica. La Confindustria della Marcegaglia, a sua volta, ha appena consumato la rottura con il governo Berlusconi, lanciando l´ultimatum («o fa le riforme, o va a casa») e proponendo il progetto alternativo «Salviamo l´Italia» (insieme a Rete Imprese). La Fiat non condivide le critiche al Cavaliere (non a caso John Elkann sabato scorso ha stroncato il progetto confindustriale dicendo «non è tempo di proclami e proposte generiche». E allora prende definitivamente e pubblicamente le distanze, e se ne va da Viale Astronomia. E´ un´interpretazione maliziosa, che i vertici del Lingotto smentiscono seccamente. Ma allora perché Marchionne parla di «Confindustria politica», che per Fiat «ha zero interesse»? E perché Fabrizio Cicchitto esulta per il «divorzio», dicendo «ora la Marcegaglia è isolata»? E perché, infine, solo un´ora dopo aver proclamato l´uscita da Confindustria il Lingotto annuncia anche un altro anno di cassa integrazione a Mirafiori, generosamente coperto, pro-quota, dal denaro pubblico?
Ma al di là delle dietrologie, conta quello che si vede. E quello che si vede è che la Fiat di Marchionne, a dispetto delle promesse, fatica a tenere la competizione globale e non regge la competizione nazionale. I numeri parlano chiaro. Sia quelli della finanza, sia quelli dell´industria. Dal 3 gennaio 2011, data dello spin off del Lingotto, i titoli del gruppo sono crollati. Fiat Spa valeva 6,9 euro, e ora ne vale 3,9, Fiat Industrial valeva 9 euro e ora ne vale 5,3. Fiat Spa, che allora capitalizzava 7,5 miliardi, oggi è scesa sotto i 4 miliardi. La produzione nazionale è inferiore alle attese, lontana anni luce dagli 1,4 milioni di auto previsti nel 2014. Le vendite continuano a ridursi, con un´ulteriore caduta del 4,7% a settembre, che porta la quota di mercato domestico ad un modesto 29,7%.
I nuovi modelli continuano a latitare: a prescindere dalla Nuova Panda appena lanciata, i 9 nuovi modelli e i 4 restyling previsti non si vedranno prima dell´inizio del 2013, e l´uscita della Giulia Berlina e Station Wagon è slittata al 2014. A parte la chiusura certa di Termini Imerese, della Irisbus di Avellino e della Cnh di Imola, sul destino degli impianti italiani regna la confusione più totale. Il mitico progetto «Fabbrica Italia» resta un´araba fenice. Il piano industriale è tuttora ignoto. La conferma degli investimenti su Mirafiori, formulata dallo stesso Marchionne, è sicuramente un fatto positivo, come lo è la garanzia che lì si produrrà la Jeep. Ma non si può non vedere che per Torino siamo ormai al terzo dietrofront: prima doveva produrre la Topolino, poi la Citycar, poi i Suv Alfa.
L´impressione, purtroppo, è quella di un´azienda che, almeno nel Belpaese, viaggia ormai a fari spenti. Che ha scelto di scommettere tutte le sue carte solo sulla ruota americana di Detroit, e ha scelto di giocare la partita della concorrenza domestica solo sul piano dei tagli alla produzione e al costo del lavoro. Marchionne può dire quello che vuole. Ma tanti indizi, ormai, cominciano a fare una prova. La «strategia delle mani libere» non ha più nessun´altra giustificazione, se non quella del disimpegno. Dopo il divorzio da Confindustria, arriverà anche il divorzio dall´Italia.

La Repubblica 04.10.11

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“Lo strappo di Marchionne. E Confindustria si spacca”, di Laura Matteucci

L’ ultimo strappo di Marchionne verso l’autarchia negoziale preoccupa molti e non piace a (quasi) nessuno. Certo non a Emma Marcegaglia, che «rispetta la decisione», ma«non ne condivide le motivazioni », che anzi «non stanno in piedi», dice. E nemmeno al mercato, che penalizza tutti i titoli del Lingotto, con Fiat Industrial a guidare i ribassi con un calo del 5,74%. Decisa, annunciata, organizzata da oltre un anno, l’uscita di Fiat da Confindustria adesso ha il timbro dell’ufficialità e una data: il primo gennaio 2012. Il tutto nero su bianco in una lettera dell’ad Fiat Sergio Marchionne alla leader dei confindustriali, che per spiegare l’adieu stigmatizza l’accordo del 21 settembre tra sindacati e Confindustria, colpevole di aver «fortemente ridimensionato le aspettative sull’efficacia dell’articolo 8», leggi sulla possibilità di licenziare più facilmente (articolo accolto esaltato da Marchionne anche nella lettera). Un facile appiglio, si può dire, per giustificare una decisione maturata ben prima di tutti gli ultimi accordi sulla contrattazione. «Marchionne – replica Marcegaglia – dice che l’accordo interconfederale avrebbe depotenziato l’articolo 8, ma questo non è vero, i pareri espressi da importanti giuslavoristi dicono esattamente il contrario». Paradossale poi il giudizio di Marchionne sulla recente uscita del «collega» Diego Della Valle contro un certo modo di fare politica: «Ha espresso frustrazione, ma ora al Paese serve coesione». Sarà, ma sembra sia sempre qualcun altro a doverla costruire. Come dice Vincenzo Scudiere, segretario confederale Cgil: «È spiacevole che proprio la più grande azienda italiana continui a fare scelte che puntano a mettere in discussione i passi avanti fatti con la ricostruzione di regole nell’ambito di nuove e rinvigorite relazioni sindacali». Le parole di Marchionne sono «molto negative», commenta Pier Luigi Bersani dalla sede del Pd. «Si può lavorare per cercare flessibilità in un quadro di tenuta del sistema delle relazioni – continua – non serve la balcanizzazione». Come spiega Stefano Fassina, responsabile economico Pd: «Indica la volontà di applicare le potenzialità più regressive dell’articolo 8: licenziamenti facili, deroghe peggiorative alle leggi e al contratto nazionale, mutilazione della rappresentanza e della democrazia in fabbrica». SISTEMA DEBOLE Anche i sindacati commentano con preoccupazione: «Non può dire che esce perchè è stato depotenziato l’accordo del 28 giugno. Non è affatto vero», dice Raffaele Bonanni, leader Cisl. «La Fiat non vuole regole e nega la rappresentanza – dice ancora Scudiere – Una posizione che trova il sostegno di un governo che non ha mai avuto la capacità di farsi rispettare ».E che adesso, con il ministro Sacconi, riesce a dire solo: «La vera notizia è che vengono confermati gli investimenti in Italia». Magra (e nemmeno tanto reale) consolazione. La preoccupazione, ora, è che il baricentro di Fiat si allontani sempre più dall’Italia, come sottolinea lo storico Giuseppe Berta, per il quale lo scopo di Marchionne è quello di «un contratto tagliato su misura: da tempo tende a sottolineare la distanza dalle istituzioni. Le sue esigenze non sono più contemperabili nell’ambito degli assetti italiani». Non bastano quindi le rassicurazioni dell’ad sui nuovi investimenti: a Mirafiori dal 2012 verrà prodotto un suv a marchio Jeep, a Pratola Serra (Avellino), si lavorerà ad un nuovo motore per l’Alfa Romeo. L’addio del Lingotto «avrà forti ripercussioni sul sistema confindustriale », aggiunge Berta. E «certamente la spinta delle grandi imprese verso l’autonomia contrattuale esce rafforzata», rischio che preoccupa anche Innocenzo Cipolletta, ex direttore generale dell’Associazione degli industriali. Come addetti Fiat rappresenta lo 0,8% dell’intero sistema confindustriale, mentre dal lato contributivo pesa l’1%, poco meno di 5 milioni di euro. Ma è tutto politico il peso più rilevante della scelta. Per Stefano Parisi, presidente di Confindustria digitale, lo strappo «segna un indebolimento che il sistema delle imprese non può permettersi».

L’Unità 04.10.11

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“Annunci, rotture e chiusure. La memorabile Fabbrica Italia”, di Oreste Pivetta

Sergio Marchionne, il cashmere della modernizzazione, ha spiegato che cosa vuole davvero, raccontando per calmare le acque un’altra versione del suo Progetto Italia, della sua Fabbrica Italia, raccontando cioè di un altro rinvio e di un altro no. Mentre pretende mano libera sul fronte delle relazioni sindacali e pretende facoltà di licenziamento senza giusta causa, in virtù dell’articolo 8 della legge finanziaria, buttando a mare per quanto lo riguarda l’accordo tra Confindustria e sindacati, che pareva ai più la via migliore e pacifica per costruire modelli di contrattazione più adeguati ai tempi, mentre – tanto per fare un esempio – si va chiudendo la storia di Irisbus con l’avvio delle procedure di mobilità per i lavoratori (l’Italia non sarà più in grado di produrre autobus?), l’amministratore delegato del Lingotto aggiorna i suoi piani e promette un suv a marchio Jeep per il secondo semestre del 2013, quello stesso suv che aveva già solennemente promesso per il terzo bimestre del 2012, salvo ancora lasciare nella totale vaghezza l’eventuale produzione di un suv a marchio Alfa Romeo, che a questo punto non si produrrà mai, né a Mirafiori né in qualsiasi altro sito italiano. Del resto non si conoscono i volumi produttivi (aveva garantito duecentocinquantamila vetture all’anno), non si sa come si arriverà a quel fatidico secondo semestre, se non attraverso nuove ondate di cassa integrazione, non si capisce neppure che futuro avrà l’Alfa Romeo, sembra sull’orlo del baratro e della vendita. Non si vedono gli investimenti promessi nella gigantesca cifra di venti miliardi e per ora ridotti alle briciole in attesa, evidentemente, di chissà quali nuovi ripiegamenti del sindacato italiani, di chissà quanti nuovi “articoli otto”. Il paesaggio produttivo nazionale, in deciso regresso, contempla per ora solo annunci e chiusure. L’unica cosa certa, con la morte di Irisbus, è la fine di Termini Imerese. Il resto, in aggiunta ai suv, sarebbe una city car, la nuova Topolino, che si sarebbe dovuta produrre a Mirafiori e che è già sparita dalla scena. Accenniamo ancora, per dovere di cronaca, alla Topolino elettrica, la Panda ibrida e alle cinquantamila Maserati promesse a Grugliasco: che ne sarà mai? L’incertezza e la paura si fanno compagnia e non solo Giorgio Airaudo, segretario Fiom e storico leader metalmeccanico a Torino, si chiede se la rottura con Confindustria, l’ormai esausta polemica sulla conflittualità sindacale, l’eterna rivendicazione di flessibilità (e di bassi salari) servano a produrre auto in Italia o a coprire la ritirata dall’Italia. Le perplessità sono anche del segretario Cisl del Piemonte, Giovanna Ventura che a questo punto vorrebbe un incontro con Marchionne: “Vogliamo capire esattamente i tempi di tutta l’operazione perchè restiamo preoccupati soprattutto per quei lavoratori in cassa integrazione da più di tre anni e per tutti gli altri che operano nell’indotto». Persino Bonanni e Angeletti, segretari Cisl e Uil, hanno protestato: la promessa del suv torinese non compensa il siluro spedito a Confindustria e quindi all’accordo sindacale del 28 settembre. Evidentemente Marchionne la conflittualità se la cerca da sé, se non offre almeno la garanzia di un piano e se varompendo i patti. Se vuole governare Mirafiori, a questo punto gli servirà un sindacato. C’è già il Fismic (il cui segretario Di Maulo s’è affrettato a ringraziare per il futuro suv, che confermerebbe la centralità di Mirafiori nel sistema Fiat, almeno in Italia),mail Fismic, che non ha sottoscritto l’accordo con Cgil, Cisl e Uil, non è certo maggioritario. Vedremo che cosa di nuovo escogiterà la Fiat per aiutarlo a crescere: la tradizione alle spalle non fa difetto. Un’altra volta, secondo Airaudo, manca un interlocutore politico. Marchionne s’è ritrovato accanto al governo, che con il solerte Sacconi ha escogitato l’articolo 8, articolo ad aziendam dicono alla Fiom. Purtroppo il governo non se lo sono trovato al fianco i lavoratori, un governo capace di strappare al Lingotto certezze dopo tanto vagare tra Torino, Pomigliano, Serbia, Polonia, Brasile e pure di fronte al regalo dell’ultima manovra. Marchionne veleggia sempre di più verso l’America, ma la storia tutta rose e fiori che ci racconta non corrisponde al vero: deve risanare l’impresa deve ripagare i debiti, deve anche lì trattare con un sindacato, che avrà altra cultura rispetto al nostro, ma che intanto rivendica la revisione dell’accordo che prevedeva più bassi salari per i nuovi assunti. Anche in America dovrebbero prevalere principi di equità. Banalmente se le mansioni sono identiche, anche i salari dovrebbero esserlo. La sensazione è che la Fiat tricolore debbapagare il risanamento a Detroit. All’Italia che cosa resta? Pomigliano (con la newco, le riassunzioni, con la nuova Panda?), Mirafiori (con il suv Jeep?), Grugliasco (con le cinquantamila Maserati?), Melfi, Pratola Serra (con il nuovo motore Alfa, altro annuncio, proprio ieri)… Intanto il mercato dell’auto ricrolla. La Fiat si consola:guadagna mezzopunto come quota di mercato, calando di quasi cinque punti rispetto al settembre 2010

L’Unità 04.10.11