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"La nostra vergogna", di Luciano Gallino

Le hanno trovate abbracciate. Le quattro donne morte lunedì nel crollo della palazzina lavoravano in nero per pagare i mutui. E venivano pagate 4 euro l´ora. Ieri si è levato il monito di Napolitano: «È inaccettabile». La Procura di Trani ha aperto un´inchiesta per omicidio colposo plurimo e disastro colposo. Ma al momento non ci sono indagati. Un edificio pieno di crepe, uno scantinato mal illuminato, mal aerato, senza uscite di sicurezza. Nel quale lavoravano una decina di donne, faticando fino a dieci ore al giorno. Però senza contratto di lavoro, e pagate 4 euro l´ora. Di laboratori del genere ce ne sono decine solo a Barletta, che diventano migliaia se si guarda all´insieme del Mezzogiorno, e decine di migliaia se lo sguardo si allargasse mai al Centro e al Nord.
Di laboratori e officine e cantieri in nero è piena tutta l´Italia, lo era prima della crisi e lo è ancora di più adesso che la crisi morde tutti e dovunque. Non tutti hanno sulla testa mura che si sgretolano. Però le condizioni di lavoro crudeli, il lavoro in nero e le paghe da quattro euro o meno sono per centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori l´esperienza di ogni giorno. Il sindaco di Barletta ha detto che non se la sente di attribuire alle persone alcuna responsabilità per le condizioni in cui avevano accettato di lavorare in nero entro quel laboratorio. E neanche alla famiglia dei titolari, che non firmavano contratti in regola, ma nel crollo hanno perso la giovanissima figlia. Dalle nostre parti, intendeva dire il sindaco, l´alternativa al lavoro nero è la disoccupazione e la fame (o l´ingresso nella truppa della criminalità). L´affermazione è politicamente poco opportuna. Il guaio – che è un guaio di tutti noi – è che il sindaco ha ragione. Fotografa una situazione. Il mercato del lavoro è stato lasciato marcire dai governi e dalle imprese in tutte le regioni d´Italia. La crisi ha accelerato il degrado, ma esso viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Una intera generazione oppressa dalla precarietà lavora quando può, quando riesce a trovare uno straccio di occupazione. Stiamo uccidendo in essa la speranza.
Adesso milioni di italiani guarderanno i funerali di Barletta in tv, e molti proveranno una stretta al petto, e il giorno dopo torneranno al loro lavoro precario per legge, grazie alle riforme del mercato del lavoro, o precario perché del tutto in nero. Tuttavia qualcuno un po´ di vergogna potrebbe o dovrebbe pur provarla. Come può un paese in cui si vendono centinaia di migliaia di auto di lusso l´anno, in cui ci sono più negozi di moda che lampioni stradali, e milioni di famiglie hanno almeno due cellulari pro capite, permettere a sé stesso di lasciar morire sotto una casa malandata che crolla un gruppo di giovani donne che faticavano senza contratto per 4 euro l´ora? Le abbiamo costruite tutte noi, queste trappole fisicamente e giuridicamente infami, con le nostre scelte di vita, i nostri consumi, con lo squallore della nostra cultura politica e morale.

La Repubblica 05.10.11

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“Sono morte per 4 euro all´ora le hanno trovate abbracciate”. La rabbia dei parenti delle vittime: qualcuno deve pagare, di GABRIELLA DE MATTEIS e GIULIANO FOSCHINI

Abbiamo cominciato a scavare, con le mani toglievamo le pietre. Sentivamo le voci, chiedevano aiuto
Giovanna aveva preso il vestito delle feste, oggi doveva andare a un matrimonio. La seppelliremo con quello. Sono messe in fila sui tavolacci dell´obitorio, una accanto all´altra come fossero ancora sedute al tavolo di lavoro, Giovanna, Matilde, Tina, Antonella e poco più in là Maria, le donne di Barletta, ammazzate per tre euro e 95 all´ora.
Per poter comprendere fino in fondo la loro storia bisogna aver visto almeno una volta una “confezione” di Barletta, segreto del boom economico degli anni ‘80 di questa città. Alla “confezione” ci lavorano soltanto donne. A gestirla nella maggior parte dei casi è una donna. Spesso la moglie del proprietario o di un dipendente di un maglificio. Al maglificio producono e alla “confezione” confezionano: tagliano cioè i fili sporgenti, applicano l´etichetta, piegano la maglia, la felpa o quello che è. Imbustano e poi accatastano. La loro è una ritualità da catena di montaggio, gesti sempre uguali e il più possibile precisi. È un lavoro da cinesi ma questi scantinati non hanno nulla di cinese: si respira profumo e pettegolezzo. Giovanna e Tina portavano i fiori giù in via Mura Spirito Santo, Matilde era quella invece della cucina, Antonella quella dei sogni, Maria raccontano fosse un po´ la mascotte e un po´ l´invidia. Aveva 15 anni, «potessimo avere noi ancora 15 anni, sai quante cose, sai quante».
Ecco, in una “confezione” si impacchettano maglie e si accatastano vite. Si ascolta Raf e Tiziano Ferro ed è un po´ come andare al cinema: chiudi una felpa e immagina il filmino del matrimonio, la più bella pellicola mai andata in onda, taglia un´etichetta e ricorda tua suocera, dannata la suocera. Richiudi un filo e racconta, o magari inventa, che il tuo corredo è meglio di quello di Mastrota. Guarda Maria e sorridi, perché speri tanto che anche tuo figlio o magari tua figlia verrà bella e intelligente così. Ecco, era tutto questo via Mura Spirito Santo, un´azienda a conduzione familiare, nel senso che conducevano le famiglie, che dopo pranzo erano tante ma prima di pranzo era soltanto una. Quella della “confezione”. Non erano schiave le donne di Barletta. Non ci sono vittime o aguzzini. Non ci sono cattivi in questi scantinati, né quello della fabbrica né questo dell´obitorio.
I cattivi in questa storia ci sono, ma sono altri. «Lo sai chi?». La mamma di Giovanna è la più determinata. Piccola, bionda, non piange ed è incazzata. «La colpa non è di quei poveri signori che le davano da lavorare e che ora piangono qui insieme con noi. La colpa è di chi doveva controllare e non l´ha fatto, di chi viene pagato per fare esistere e rispettare la legge e se n´è fregato. Noi siamo povera gente e ora ci hanno rubato anche il sorriso, che forse era l´unica ricchezza che avevamo». Il sorriso. Sorridono le donne di Barletta nella foto che Matilde, 31 anni, aveva postato su Facebook. «Quel maglificio le piaceva, un po´ era anche casa sua. E del resto che cosa avrebbe potuto fare? Rinunciare in questi tempi a un lavoro non si può» racconta la mamma, una signora anziana che rimane ferma sul muretto fuori l´obitorio, accarezzando la mano di una volontaria della Croce Rossa. La mamma di Tina è alla ricerca di una consolazione. «Un vigile del fuoco mi ha detto che Tina abbracciava Maria. La proteggeva. E´ stato il suo ultimo gesto». La mamma di Maria è sempre più piccola in un angolo dell´obitorio. Piccole come sanno diventare solo le mamme addolorate. Il suo è un dolore se possibile ancora più grande: piange sua figlia, piange quattro sue dipendenti, quattro sue amiche. Fa segno con cadenza regolare di no, dice che no, così è troppo, così non è sopportabile,
Poco più in là c´è Antonella. Aveva 36 anni appena e presto sarebbe diventata nonna. Sua figlia è incinta e aspetta una bambina, chiaramente. Giovanna invece aveva 30 anni e due bambini. Oggi era giorno di matrimonio, si sposa un parente e sul letto a casa c´è ancora il vestito della festa. Ed è con quello che ora un´amica la vuole seppellire. Mamme e figlie. I vestiti. La musica. «Domani, domani quando andranno via dovranno essere belle. Bellissime. Belle e fiere. Insomma, dovranno essere donne».

La Repubblica 05.10.11

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