attualità, lavoro

"Quei laboratori clandestini di tutte le Barletta d’Italia", di Roberto Giovannini

Una volta – solo quindici anni fa – a Barletta e dintorni nel tessile-calzaturiero lavoravano almeno 10 mila persone. Aziende con alti e bassi, ma medio-grandi; che pagavano stipendi regolari. Adesso, nel 2011, se va bene nelle poche ditte che non hanno chiuso i battenti ci saranno un migliaio di lavoratrici. Altre mille sono impiegate nelle aziende «irregolari-regolari», quelle che magari pagano in ritardo o tagliano di un terzo la busta paga. E poi, c’è il mondo dei sottoscala e degli scantinati, imprese che non esistono per la legge. «Saranno cinquanta in città, forse di più – spiega Luigi Antonucci, segretario della Cgil della provincia -, le scopriamo per puro caso, magari passando davanti a una porta da cui escono dei rumori. Strutture improvvisate, malsane, pericolose. Dove non riusciamo ad entrare».

Oggi l’Istat stima circa tre milioni di lavoratori irregolari. «Ma il fenomeno dei laboratori clandestini – chiarisce Clemente Tartaglione, economista del centro studi Ares 2.0 – è relativamente limitato e marginale. Il grosso del lavoro irregolare, dove non si rispettano regole, leggi e contratti, oggi è nei servizi. Ed è praticamente scomparso dall’industria manifatturiera. Con un’eccezione». L’eccezione è il tessile. Su circa 500 mila addetti, si stimano in circa 60 mila quelli non in regola. Una realtà che ha molte cause: ci sono addirittura 80 mila imprese, con il 30% degli occupati concentrati in ditte con meno di dieci dipendenti. Il tessile è particolarmente esposto alla congiuntura e alla concorrenza internazionale; è in «ristrutturazione permanente». Soprattutto, è un settore in gravissima crisi: negli ultimi tre anni sono stati espulsi ben 140 mila dipendenti, il 20% dell’occupazione totale. Spesso lavoratrici di una certa età, che non trovano – specie al Sud – alternative all’impiego in laboratori clandestini. Diffusissimi, oltre che in Puglia, in Campania, da Napoli all’hinterland al Vesuviano fino a Salerno.

Nel Centro-Nord del paese, dove le imprese sono più solide e le produzioni di migliore qualità, il tessile clandestino è quasi sempre faccenda che chiama in causa i cinesi. Il caso principe è quello di Prato, dove alla Camera di Commercio sono registrate addirittura 3000 aziende (molte resistono pochi mesi, subito altre ne sorgono) con proprietari cinesi che danno lavoro a circa 30-40 mila connazionali. Numeri certi non ce ne sono. L’iscrizione alla Camera di Commercio è l’unico elemento «regolare»: non si pagano tasse di nessun tipo né contributi, e si lavora in condizioni bestiali. Il 5 aprile a Prato sono stati scoperti due cadaveri di operai, morti a causa di stimolanti assunti per poter reggere turni anche di 16 ore di lavoro continuo. Laboratori lager, in cui si dorme al termine della giornata su materassi luridi. La paga? «O a cottimo, ad esempio 1,86 euro per ogni pantalone racconta Giovanni Piras, operatore sindacale della FilctemCgil – oppure un “fisso” mensile di 800 euro più vitto e “alloggio”, con la garanzia di prenderlo anche quando non c’è lavoro. Ma l’obbligo di andare ad oltranza quando c’è da completare una commessa. Migliaia di capi in un weekend». Ovviamente, italiani sono i proprietari dei capannoni, i consulenti, e i compratori dei prodotti.

A Prato i cinesi controllano il segmento meno pregiato della filiera dell’abbigliamento; a Ferrara, invece, cominciano a produrre direttamente anche per i grandi marchi del sistema moda, dice Marco Corazzari, segretario della Filctem locale. «Accade sempre più spesso – afferma – che le piccole aziende italiane che facevano queste lavorazioni vengano bypassate a favore delle ditte cinesi, che offrono prezzi irrisori e irraggiungibili». Anche per questo i piccoli laboratori di una volta sono quasi tutti chiusi: «In quelli sopravvissuti ci sono 400 lavoratrici, ma tutte in cassa integrazione in deroga».

Le grandi firme nazionali hanno responsabilità? «Non c’è dubbio che se c’è un’offerta c’è anche una domanda – replica Michele Tronconi, presidente di Sistema Moda Italia di Confindustria – ma di fronte a disgrazie come quella di Barletta dobbiamo sapere che ci siamo dentro tutti». Per Tronconi, tra i tanti «peccati di omissione» c’è una disattenzione generale al manifatturiero e ai suoi problemi. E per uscirne, è molto più utile pensare «a una fiscalità diversa, che pesi meno sull’impresa e sul lavoro», piuttosto che a nuovi giri di vite «con sanzioni esagerate e poi non rispettate». Valeria Fedeli, leader storica dei tessili Cgil, ammonisce: «Non possiamo pensare a rincorrere la Cina sui costi, e accettare “qualunque” lavoro, anche quello dei sottoscala». «Fa male al cuore vedere quello che è accaduto a Barletta – dice amareggiato Luigi Rossi, presidente di Federmoda Cna -, dobbiamo metterci in testa che serve una cultura della legalità. Anche noi imprenditori dobbiamo capire che non si va da nessuna parte con la logica del ribasso a prescindere. Abbiamo leggi buone, allora applichiamole con controlli severissimi. E inaspriamo le sanzioni».

La Stampa 06.10.11

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Geppino, 11 anni e un mestiere a due euro l’ora “La scuola è per bambini, io devo campare”, di Conchita Sannino

Ho un buon principale. Quando serve che lavoro di notte io monto alle 3 e finisco alle 7. Così faccio più soldi.
Vive a Casalnuovo, un posto dove anni fa qualcuno riuscì a erigere ben 29 palazzi abusivi.
«La scuola? È p´´e criature». Geppino “testa calda” ti sfida con gli occhi. Certo, è affare di bambini la scuola cui guarda questo Pinocchio al contrario, che ha dato via i sussidiari in cambio di giornate più dure e non crede nei campi dei miracoli. «Che cosa so fare di mestiere? Uno ‘e tutto. Il lavoro è lavoro». L´aria giocosa di chi sfoggia sguardi da adulto. E quella difesa che spunta coma seconda pelle: la risata. Nervosa, indagatrice.
Nome Giuseppe, lo chiamano Geppino, ha 11 anni, è uno dei sessantamila dispersi della scuola in Campania. Pelle olivastra, mani sottili. Una casella tra i cold case dell´istruzione. “Apprendista” in una tipografia dell´hinterland. Sneaker arancio della Nike, jeans firmati Cavalli. «Solo la maglia è cinese, quella buona si sporca di fatica e quindi me la metto il sabato». La paga di Geppino, 150 euro a settimana. «Più qualche mancia, se vado per consegne». I compagni, l´unica famiglia. Di sua madre non vuole raccontare, suo padre è detenuto per truffa, un tempo era camionista. E c´è un viaggio che il figlio ricorda di avere fatto con lui, dall´Asse mediano di Napoli al lungomare di Riccione. «Era divertente fermarci alle piazzole col panino. Anche dormire sul furgone mi piaceva. Quando arrivammo fino a là, vidi per la prima volta tanti alberghi vicini. E pure le file di ombrelloni uguali, ordinati. Non come sulle spiagge nostre dove ognuno va con le sedie sue». Ora Geppino vive con i nonni a Casalnuovo, un posto dove anni fa qualcuno riuscì ad erigere e perfino a vendere ben 29 palazzi abusivi, oggi in parte demoliti.
Geppino il tipografo somiglia a quei palazzi. Oggetto di una dimenticanza collettiva, segno di complicità rimossa. Quanti sono gli “onesti” che le famiglie lasciano andare e lo Stato finge di non vedere? Un esercito. Napoli se ne conferma capitale. Quarantamila solo nell´area metropolitana, come ricorda spesso la Fondazione Banconapoli. Ma i dati incrociati – l´ex anagrafe scolastica regionale e il welfare precario che assiste le famiglie disagiate – tracciano uno scenario più articolato. «I dispersi al di sopra dei 14 anni sono circa 52.000 in Campania», racconta Amelia Cozzolino, dell´ex progetto Suaris, Supporto all´attività di inclusione scolastica, cancellato in Regione da un anno. Continua Amelia: «A Napoli e provincia c´è il picco di abbandono per fascia d´età più bassa: 80 casi accertati nel centro della città, e oltre 50 tra i 6 e i 7 anni. E molti di questi bambini hanno a loro carico situazioni di disabilità fisiche o psichiche. Oggi? Può solo peggiorare. Avevo spinto una mia vicina al corso di parrucchiera. Poi il progetto è saltato. Lei è tornata a fare la shampista in nero. Ha 14 anni». Si rischia di parlarne solo nella “Giornata mondiale dello sfruttamento”.
Con il divampare della crisi, e i tagli agli enti locali, quale posto occupano gli “operai” invisibili? Cesare Moreno, fondatore della scuola di strada con Marco Rossi-Doria, detesta le classifiche che confinano con il colore. «Non cercate bimbi di 8 anni che fanno i baristi. Cercate l´enorme pattuglione dei 12enni o 16enni che alla scuola voltano le spalle e stanno nella fabbrica del sommerso o in quella del crimine, purché si sentano considerati».
In un´altra trincea, tra Castellammare e Pompei, i baby lavoratori passano qualche ora di svago e formazione a “La voce d´´e criature” di don Luigi Merola, fondazione dell´ex parroco del rione Forcella. Ergan, 15 anni, origini slave, lavora da un fioraio per 160 euro a settimana. Sveglia alle 2 di notte. Solo quando può, frequenta la terza media. «Ho perso due anni a ripetere la quarta elementare. Ci andavo, e dormivo. Presi pure a cazzotti una prof». Vive con i nonni: sfondo consueto, i minori aggrappati alla pazienza degli anziani. «Ho un buon principale. Quando serve che lavoro di notte, io monto alle 3 e finisco alle 7. Che cosa me ne faccio dei soldi? Porto la fidanzata il sabato a ballare ai locali di Sorrento, mi vesto». Di tanti fiori, Ergan non ha trattenuto che un nome. «Le rose, solo quelle mi piacciono».
Altra location. Scampia, via Fratelli Cervi. Nella curva dietro l´insediamento delle Vele, oltre una ditta di nettezza urbana, c´è sempre stato un porto per questi ragazzi. Dal nome austero: “Educativa territoriale”. Dentro, cento iscritti, oltre la metà «casi delicati». Significa: con parenti detenuti. Antonio ha 11 anni. Corpulento, mani grandi, che spesso picchiavano. Ha assaggiato molti lavori. «Il panettiere, lo scaricante, il barista e il ragazzo che controlla la merce esposta, sennò se la fottono. Farei tutto, tranne lo schiattamuorto», il fossatore. Le educatrici spendono ogni energia. Uno ribatte: «Se lavoro perché nascondermi? Non è meglio che spacciare?». Martellante il richiamo all´”altro” lavoro, il Sistema, la camorra. Chi fa il “palo”, cioè avvisare dell´arrivo della polizia, qui prende 150 euro al giorno.
Ma tanti si accontentano di un (sotto)lavoro. Come Geppino, sembrano sereni. «Se uno lavora, campa», ridono. Anche del loro futuro.

La repubblica 06.1o.11