memoria

"Anna e i delitti impuniti che infestano il Cremlino", di Paolo Valentino

Il 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaja veniva uccisa a colpi di pistola nell’ascensore di casa sua a Mosca. Giornalista d’assalto della Novaya Gazeta, Anna era conosciuta per i suoi reportage sugli abusi dei diritti umani commessi dalle forze russe in Cecenia. Articoli dettagliati e senza concessioni, densi di critiche contro il presidente dell’epoca, Vladimir Putin e il brutale megalomane che questi aveva imposto al vertice a Grozny, Ramzan Kadyrov. Fu un omicidio su commissione, che coronava mesi di minacce, pedinamenti, arresti, perfino un tentativo di avvelenamento nei confronti della donna.

Cinque anni, tre inchieste, centinaia d’interrogatori e intercettazioni dopo, l’affaire Politkovskaja è ancora irrisolto, simbolo e metafora del groviglio di corruzione e complicità che avvinghia e domina il Paese. Qualcosa si è pur mosso. Il Comitato investigativo della Federazione Russa, responsabile della più recente indagine, ha incriminato un ufficiale in pensione della polizia moscovita e un informatore dei servizi, l’Fsb erede del famigerato Kgb, accusati rispettivamente di aver organizzato e commesso l’assassinio. Ma rimangono senza risposta le domande cruciali: chi ha ordinato l’eliminazione di Politkovskaja? E quale ruolo hanno avuto le forze di sicurezza?

A Novaya Gazeta non si rassegnano. È uno dei pochi media che il pervasivo autoritarismo di Vladimir Putin tollera come voce indipendente, una sorta di fiore esotico che consente al Cremlino di offrire un’immagine esterna meno arcigna e più compatibile con i modi delle vere democrazie. «Se vanno a processo non solo i killer, ma anche i sospetti organizzatori allora c’è speranza di arrivare ai mandanti», mi dice il vice-direttore Sergei Sokolov.

Il lavoro di scavo del giornale continua su tutti i fronti. Ma ancor più del caso Politkovskaja, nessuno dei tanti misteri russi legati alla corruzione, che ammorba la gestione pubblica, è oggi potenzialmente più devastante di quello che circonda un’altra vittima del sistema.

Sergei Magnitsky, avvocato d’affari per il gruppo Hermitage, morì come un cane nel novembre 2009 nella prigione moscovita di Matrosskaya Tishina, dopo un anno di custodia preventiva in totale isolamento, durante il quale era stato picchiato, torturato, si era ammalato di pancreatite e si era visto negare ogni assistenza medica.

La colpa di Magnitsky era di aver smascherato e denunciato la madre di tutte le frodi: una cricca di funzionari del ministero dell’Interno aveva fatto sparire, grazie a false operazioni fiscali, 230 milioni di dollari che una sussidiaria di Hermitage aveva già versato come tasse allo Stato. Detto altrimenti, una truffa dell’erario contro l’erario. Ad arrestarlo, furono gli stessi poliziotti che Magnitsky aveva accusato. La sua sorte era stata segnata dal rifiuto a ritirare la denuncia e testimoniare il falso contro il suo cliente, l’investitore anglo-americano William Browder, patron di Hermitage.

Browder era in Russia sin dagli Anni 90. La sua storia personale è un interessante contrappasso: nipote di Earl Browder, fondatore negli Anni Venti del Partito comunista americano anticapitalista e filo sovietico, era stato uno dei primi imprenditori ad avventurarsi nella Russia del post comunismo. Ed era stato anche uno dei sostenitori di Vladimir Putin, almeno fin quando mostrò un eccesso di attivismo nel denunciare le pratiche troppo disinvolte di aziende statali come Gazprom e venne espulso.

La morte di Magnitsky aveva suscitato sdegno e ribellione perfino nelle elite russe. Il presidente Dmitrij Medvedev ordinò un’inchiesta. Ma sono stati soprattutto Browder e appunto Novaya Gazeta a non mollare la presa, trasformando l’affaire in una bomba ad orologeria, che ora in molti tentano nervosamente di disinnescare.

Spendendo milioni, Browder ha raccolto prove inconfutabili sulla colpevolezza dei funzionari, pubblicandole sul sito www.russian-untouchables.com. Non ultimi, i versamenti per oltre 10 milioni di dollari, ricevuti sui depositi esteri del marito, da Olga Stepanova, capo dell’Agenzia delle entrate di Mosca, che aveva autorizzato il dirottamento dei 230 milioni di dollari della frode sui conti di una società fantasma. I soldi sono spariti nel nulla, ma lei, funzionaria a 50 mila dollari l’anno, si è improvvisamente ritrovata miliardaria e proprietaria di ville in Montenegro, Dubai e di una dimora hollywoodiana da 20 milioni di dollari a Mosca.

Sul piano concreto, i progressi sono però inesistenti. Solo due medici sono sotto inchiesta per negligenza, mentre alcuni dei protagonisti sono stati addirittura premiati per meriti di servizio e promossi. Alle contestazioni in punta di fatto di Browder, le autorità russe oppongono un assordante silenzio. Ed è Novaya Gazeta a ipotizzare il peggio, suggerendo che il caso Magnitsky abbia ramificazioni fin dentro i piani alti dell’esecutivo: «Chi è — si è chiesto il giornale — il misterioso ministro del governo che copre lo scandalo?».

Potrà o vorrà Vladimir Putin, ora che ha deciso di tornare al Cremlino da presidente, con la prospettiva di restarci fino al 2024, combattere sul serio la corruzione, senza mettere in discussione le basi del proprio potere? «Non può farlo radicalmente — mi dice Alexei Veneditkov, direttore di Ekho Moskvy, l’unica radio indipendente dell’etere russo —, Putin pensa che la corruzione sia il male minore di fronte al rischio di disgregazione, il prezzo da pagare all’unità del Paese».

E in parte d’accordo è anche Alexander Lebedev, il tycoon coproprietario insieme a Mikhail Gorbaciov della Novaya Gazeta, secondo il quale «è quasi impossibile trovare un aspetto della vita che non sia dominato massicciamente dalla corruzione ai più alti livelli, il sistema politico è diventato un ostacolo alla crescita economica». Ma per Lebedev, la soluzione è solo parzialmente russa: «Bisogna rafforzare il sistema legale, dare autonomia ai giudici, creare delle corti amministrative cui i cittadini possano rivolgersi. Ma è anche una questione globale. Se ne dovrebbe far carico il G20 o addirittura il braccio politico della Nato. I soldi della corruzione russa vanno quasi tutti all’estero. È lì che bisogna agire».

Il Corriere della Sera 08.10.11