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"Il gusto fuori luogo delle parolacce così la politica perde dignità", di Maria Laura Rodotà

Il partito che si vorrebbe chiamare Forza Gnocca. La patonza che deve girare. La deputata che protesta e le urlano «vai a farti scopare». Viene da rispondere «il partito fatelo pure, le donne girano se e quando credono loro, e quanto al sesso, cari signori (si fa per dire), non con voi». Viene da posare il giornale, cambiare sito, obiettare che siamo in guai seri e certe battute vanno ignorate. Ma non si può più. Siamo in piena deriva linguistico-culturale, una deriva che ci fa rischiare altre derive, più durature di questo governo. Come:

a) La sindrome di Tourette collettiva. Le esternazioni del premier e di vari leghisti, accompagnate da dosi massicce di tv trash, stanno portando molti italiani — finora consumatori di parolacce in modica quantità — alla ripetizione continua e ossessiva di termini anatomici. Sono usati con compiacimento o indignazione; sempre parolacce sono. Non si era mai visto un pezzo di classe dirigente adottare un linguaggio così volgare, a parole e a gesti. Un linguaggio che, combinato col bombardamento di foto osé di signorine coinvolte e di barocche cronache del bunga bunga, ha fatto piombare la conversazione pubblica italiana in un incubo che neanche Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini in una loro tarda joint venture avrebbero potuto immaginare, e poi:

b) I danni da uso discriminante della cassetta degli attrezzi. Cioè del linguaggio, così definito da Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. Gli attrezzi sono le parole, con funzioni che variano. Quando una parola è utilizzata fuori dal suo contesto solito, il «gioco linguistico» cambia. Per dire: il contesto di «patonza» o «gnocca» è un bar vecchio stile, o un gruppo di maschi che discute dei video su YouPorn. Ma se «gnocca» e «patonza» vengono usati regolarmente dal presidente del Consiglio al posto del termine «donna», il gioco si fa brutto. Un intero genere è definito solo in base a una caratteristica fisica; per nominare l’altro genere però non si dice «un pisello», o altro. Così, le donne a quel gioco perdono. Anche se sono gnocche; e perderebbero pure in caso di:

c) Una prossima contro-deriva bacchettona. In molti, stremati dai battutoni, ogni tanto sogniamo un premier suora (una vera, non Nicole Minetti travestita). Ma non siamo né suore né preti né santi, in maggioranza.

Solo, vorremmo un linguaggio pubblico più dignitoso (anche tanti maschi maschilisti e parolacciari non ne possono più, oramai).

Il Corriere della Sera 08.10.11